L’Onu lancia l’allarme in Repubblica democratica del Congo: servono urgentemente 1.9 miliardi di dollari per proteggere e assistere la popolazione nelle regioni orientali sotto la minaccia di indefiniti gruppi ribelli che controllano il territorio, si spartiscono le terre e gestiscono nel caos la rete di traffici illeciti di minerali.
Lo scorso 5 febbraio l’ennesimo attacco nel villaggio di Mabule, nel settore di Ruwenzori vicino a Beni nel Nord Kivu: il bilancio è di 15 civili uccisi e molti dispersi nel panico generale. Tre giorni dopo nel villaggio di Halungupa, sempre nella stessa zona, l’incursione verso sera: cinque morti di cui tre donne a colpi di machete e d’arma da fuoco.
Diverse case sono state saccheggiate e incendiate. Le accuse della popolazione e della società civile vanno al gruppo ribelle di derivazione ugandese Adf (Forze democratiche alleate), ma i dubbi restano.
Perché a regnare è il caos, come sottolinea monsignor Muyengo, vescovo di Uvira: «Non sappiamo più con chi abbiamo a che fare. Ci sono gruppi che attaccano sotto una bandiera di giorno e la notte cambiano casacca. Siamo spaesati e non sappiamo più di chi possiamo fidarci».
Le complicità dei gruppi armati con le autorità locali, con l’esercito nazionale e quello rwandese hanno determinato una situazione che prepara la balcanizzazione dell’est sotto gli occhi inerti della Monusco, il contingente dell’Onu per la pace più consistente d’Africa con oltre 20.000 soldati incapaci di dare risposte in termini di sicurezza.
Una missione di pace da tempo sotto la pressione della critica della società civile e del movimento La Lucha, che ne chiede la chiusura. Del resto come è possibile continuare a perpetuare massacri nella regione senza qualche collusione o accordi di omertà con i caschi blu?
Quello che preoccupa le Nazioni Unite è anche l’insicurezza alimentare che ha toccato un livello mai registrato in precedenza. Si stima che metà della popolazione locale – un quinto sono bambini – è a rischio nei prossimi sei mesi se gli aiuti non saranno immediati.
Del resto l’insicurezza crescente si ripercuote sui raccolti e sulla mobilità delle persone costrette a fuggire. Sono circa cinque milioni gli sfollati interni e oltre 500.000 i rifugiati. Un vero proprio esodo di congolesi a favore del vicino Rwanda sempre più ghiotto di terre da invadere per favorire il passaggio indisturbato del commercio dei minerali.
A Oicha, nel territorio del Nord Kivu, a 30 Km nord di Beni, epicentro dei massacri dal 2014, affluiscono da anni i contadini delle campagne al punto da aver trasformato in poco tempo una cittadina, cresciuta attorno ad un ospedale gestito dai missionari, in una vera e propria città di oltre centomila abitanti.
Interi villaggi tra Beni e Oicha sono stati abbandonati dalla popolazione per l’escalation di violenze e i campi di cacao restano incolti. A Oicha arrivano anche tantissimi bambini che hanno abbandonato quella scuola che il presidente Felix Tshisekedi ha voluto gratuita come segno del suo governo a favore delle famiglie più povere.
Senza tener conto però che le scuole così non riescono neanche più a pagare i salari degli insegnanti e le lezioni avanzano con il contagocce anche a causa del Covid. Sperando che non si riaffacci sulla scena l’incubo di un nuovo focolaio di ebola – considerata vinta in novembre scorso – dopo la morte, il 3 febbraio, di una donna, con quei sintomi, nella vicina Butembo, a soli 57 chilometri a sud di Beni.
Il Nord Kivu deve quindi combattere su più fronti e sono spesso i bambini i più vulnerabili. A Oicha Padre Trasparano Di Vincenzo, missionario comboniano, ha incontrato lo scorso 7 febbraio ottocento orfani e cinquanta vedove, vittime delle incursioni di questi ultimi anni, accolti presso diverse famiglie del posto. Qui la sua testimonianza che apre un varco al sogno di un’iniziativa urgente:
La Chiesa cammina al fianco delle vittime e vive dentro le ferite del popolo. Una delegazione di vescovi congolesi e dell’area dell’Africa centrale si è recata recentemente proprio in questi luoghi per invitare i vari attori a deporre le armi, a rilasciare i prigionieri – tra loro anche religiosi e religiose – e a ritornare al tavolo del dialogo e della riconciliazione. Appelli insistenti che però risuonano a vuoto.
Mentre qualcosa di positivo si muove in Europa. È operativo dal primo gennaio un regolamento che rende obbligatoria la tracciabilità di quattro minerali che giungono spesso da aree di conflitto: stagno, tantalio, tungsteno e oro. Piccoli passi, certo. Ma almeno il riconoscimento che la politica ha ancora una parola da dire, seppur molto fragile, di fronte alla dittatura del profitto.