Con l’espulsione dell’ambasciatore del Rwanda si è formalizzata una rottura delle relazioni – che era già nei fatti – tra Kinshasa e Kigali.
La decisione presa sabato scorso, durante una riunione del Consiglio superiore di difesa, presieduta dal presidente Félix Tshisekedi, risponde alla necessità del governo di indicare alla comunità internazionale “il colpevole” dell’instabilità che da decenni attraversa il nordest del paese.
E risponde anche ai bisogni elettorali di Tshisekedi, ben consapevole che se arriverà alle elezioni presidenziali del dicembre 2023 con il nordest in fiamme faticherà non poco a convincere i congolesi a dargli il via libera per un secondo mandato presidenziale (anche perché già il primo è viziato dal voto truccato del 2018).
L’ambasciatore Vincent Karega è stato messo alla porta «a causa della persistenza del suo paese ad aggredire la Rd Congo, con l’invio massiccio di elementi dell’esercito rwandese a sostegno del gruppo ribelle M23». Così il comunicato ufficiale di Kinshasa, che conferma ciò che da tempo affermano rapporti delle Nazioni Unite.
«È deplorevole che il governo della Rd Congo continui ad addossare al Rwanda la responsabilità dei propri fallimenti in termini di governance e di sicurezza». Così la risposta ufficiale di Kigali.
Di ciò che ribolle nel nordest dell’Rd Congo si dicono preoccupati sia gli Stati Uniti (a lungo sponsor del regime di Paul Kagame) sia l’Unione africana che chiede un cessate il fuoco immediato. Ma entrambi sanno bene che la situazione si è incancrenita e che per risolverla ci vorrebbero equilibri e leader politici diversi da quelli che presidiano il potere in entrambi i paesi.
Sono circa trent’anni che i rapporti tra Repubblica democratica del Congo e Rwanda non possono certo definirsi “di buon vicinato”. In gioco c’è la sovranità di tre province – Ituri, Nord Kivu e Sud Kivu: insieme fanno 180mila km² – che troppi governi congolesi hanno lasciato in balìa di sé stesse e dell’invadente vicino. In gioco c’è lo sfruttamento delle risorse minerarie e forestali, che mobilita non solo il Rwanda ma anche Uganda, imprese cinesi, gruppi di interesse locali… In gioco c’è la sopravvivenza di oltre un centinaio di gruppi armati che si disputano il territorio non tanto e non solo per ragioni etniche o ideologiche ma per garantirsi una rendita taglieggiando qualsiasi attività economica. (rz)