Non c’è mai fondo alla fame di minerali provenienti dalle viscere della Repubblica democratica del Congo. I cui cittadini che vivono nelle aree delle principali miniere sparse nel paese, oggi pagano anche per la transizione energetica.
Come a dire, cerchiamo di porre un freno ai danni provocati finora all’ambiente, ma a spese degli altri.
Cobalto e rame rimangono tra i minerali più “scavati” e desiderati da compagnie estere, ma anche di proprietà governativa, che vogliono rispondere – e il più presto possibile – alle richieste delle aziende.
Quelle che producono telefoni cellulari (ma questa ormai è cosa nota) e quelle che producono batterie ricaricabili (rame e cobalto sono essenziali per la produzione della maggior parte delle batterie al litio). Che in sostanza sono indispensabili per le auto elettriche.
Va ricordato che la Repubblica democratica del Congo possiede le più grandi riserve di cobalto al mondo e la settima più grande riserva di rame.
Molti hanno già messo in guardia su determinati mezzi di attuazione della transizione energetica.
E Amnesty International sottolineava recentemente che entro il 2030, per soddisfare la domanda prevista, il mondo avrà probabilmente bisogno di almeno il doppio di nichel, otto volte in più di manganese e dieci volte di cobalto e litio rispetto a quelli attualmente prodotti.
Diritti umani violati
L’ONG torna sul tema con un rapporto congiunto redatto insieme all’organizzazione congolese Iniziativa per il buon governo e i diritti umani, dal titolo Stimolare il cambiamento o continuare come sempre?.
Quello che emerge è che l’estrazione di tali minerali continua a svolgersi in spregio ai diritti umani. Incendi dolosi, stupri, percosse, trasferimenti o espulsioni forzate con risarcimenti – quando ci sono – irrisori.
È quello che accade a singoli cittadini o intere comunità che hanno la sventura di vivere nei pressi di queste miniere.
Una casa o un pezzo di terra che vanno abbandonati se a richiederlo, con le buone o con le cattive, sono persone molto, molto più forti di loro. E che lasciano il lavoro sporco agli altri. Spesso gruppi militari o compagnie “di sicurezza” private decisi a raggiungere lo scopo e sempre armati.
La batteria di un veicolo elettrico – sottolinea Amnesty – richiede più di 13 chili di cobalto. Si stima, dunque, che la domanda di cobalto raggiungerà le 222mila tonnellate entro il 2025, dopo essersi già triplicata rispetto al 2010.
Questo – considerato come stanno andando le cose – peggiorerà il danno nei confronti delle popolazioni.
Le violazioni raccontate nel report sono state documentate attraverso interviste alle persone che vivono (o vivevano, perché costretti a lasciare le loro case) nei pressi delle aree minerarie prese ad oggetto dal lavoro di indagine. Ma anche video, immagini satellitari, fotografie.
Molte di queste persone hanno dovuto assistere alla demolizione della loro abitazione, e che sarebbe avvenuta lo hanno scoperto non perché qualcuno li ha informati, ma per quella croce di colore rosso segnata sul muro di casa. Come per esempio a Kolwezi, nella provincia meridionale di Lualaba.
Spesso non sono state offerte adeguate soluzioni di ricollocamento e a detta dei cittadini “rimborsati” le cifre sono molto basse e quindi chi si è dovuto trasferire con la forza ha potuto solo scegliere abitazioni meno confortevoli di quelle in cui abitava e spesso senza servizi, luce e acqua corrente.
Oltretutto, in molti casi il risarcimento – secondo quanto dichiarato dagli intervistati – non corrisponde a quanto pubblicamente dichiarato da governo e aziende minerarie.
Insomma, speculazione sulle tragedie degli altri e corruzione sono un altro aspetto delle tante violazioni emerse. Le aziende minerarie coinvolte sono registrate in Cina, Emirati Arabi Uniti, Lussemburgo, Rd Congo.
Ma azionisti delle imprese sono anche in Canada, il governo del Kazakistan o nelle Isole Vergini Britanniche. Sia le compagnie che il governo negano di aver autorizzato l’uso della forza, ma la realtà racconta altro.
Intanto, la capitale Kinshasa ha ospitato la tre giorni del Forum regionale sulla conservazione della natura e i diritti fondiari delle comunità locali e delle popolazioni indigene del bacino del Congo.
Incontri che si sono conclusi con le solite raccomandazioni. Ai governi dei paesi del bacino del Congo è stato chiesto, tra le altre cose, di sviluppare o aggiornare le strategie nazionali di conservazione della natura tutelando al tempo stesso i diritti delle comunità locali.
A queste è stato chiesto di mappare il loro spazio tradizionale e spiegare il loro modo di vivere. Ci si aspetta anche il loro contributo nella lotta per preservare la biodiversità. Che ironia.