Per mettere fine ai massacri continui all’Est del Paese, il governo aveva intrapreso, un mese fa, la strada della militarizzazione. Il 6 maggio scorso nelle regioni dell’Ituri e del Nord Kivu, il presidente Felix Thisekedi aveva dato l’avvio allo stato d’assedio, sostituendo le autorità civili con militari, considerati capaci di prendere in mano e risolvere situazioni di emergenza ormai destinate al caos.
Si tratta di territori martoriati da lunghi anni di violenze, ancora prima delle due «guerre africane» a cavallo tra la fine degli anni Novanta e i primi del 2000, e in modo ancora più eclatante dal 2014. Interi villaggi vivono nella completa insicurezza, abbandonati dalle autorità dello Stato e con evidenti complicità delle autorità locali e della Monusco (il contingente delle Nazioni Unite che conta su 17.500 caschi blu), sotto il fuoco di continue incursioni di gruppi armati per il controllo di terre e minerali.
A complicare il quadro ci si è messo anche il vulcano Nyiragongo con la sua eruzione, alle porte di Goma, capoluogo della regione del Nord Kivu, a partire dal 22 maggio scorso, che ha provocato una trentina di morti, oltre 400mila sfollati e danni a strade, infrastrutture, rete elettrica e idraulica della città.
Nigrizia, a un mese dall’inizio dello stato d’assedio, si è chiesta cosa fosse realmente cambiato in quelle terre e ha contattato telefonicamente alcuni membri del movimento cittadino Lucha (lotta per il cambiamento).
A un mese dalla militarizzazione dell’Est, quali sono i risultati? Sul terreno avete la percezione che qualcosa si stia muovendo per arginare gli attacchi? La popolazione ha fiducia nei nuovi responsabili militari?
Dopo un mese i risultati sono pressoché nulli. Si parla in tono epico delle operazioni militari sul terreno ma nei fatti non si percepisce alcun cambiamento e i massacri continuano. Deploriamo con forza diversi atti abominevoli di violenze sui civili che sono ancora sulla bocca di tutte le popolazioni terrorizzate dell’Est: l’ultima incursione nel territorio di Irumu, in Ituri, dove almeno 60 civili, la maggior parte dei quali contadini sfollati, sono stati uccisi il 31 maggio. 34 nel villaggio di Boga e 26 a Banyali Tchabi, mentre 7 sono persone sono state ferite e 6 camion dati alle fiamme.
Resta un lavoro immenso da fare per sradicare tutte le minacce alla stabilizzazione dell’autorità statale nel Paese. Ci vuole tempo, certo, ma la popolazione ha reagito male perché non si fida dei militari, troppo spesso complici in queste operazioni non certo limpide. Non dimentichiamo che alcuni di questi militari, che stanno ora apparentemente dalla parte dello Stato, erano in passato suoi acerrimi nemici e alla testa di gruppi armati.
Qui ci si muove per interesse. E la gente sente questo: è stanca di troppi anni d’insicurezza, di voltagabbana a seconda di dove tira il vento dei soldi, dei massacri ma anche delle promesse del governo che lancia dichiarazioni e poi volta subito pagina per occuparsi di altri temi.
Chi è complice di questi massacri? Solo l’esercito o ci sono altri attori in gioco?
C’è una evidente complicità di alcuni soldati congolesi con i gruppi ribelli armati, ma anche di politici e di certi uomini d’affari che hanno molto da guadagnare spartendosi la torta di terre e minerali. Dietro loro, multinazionali e paesi limitrofi. Non dimentichiamoci che Goma è chiamata la “piccola Rwanda”. Ma anche gioca la sua parte non trasparente il contingente della Monusco, accusato dalla popolazione di inerzia, inefficacia, ma anche, in alcune occasioni, di collusione con alcuni membri dei gruppi armati.
Viviamo su un terreno minato dove tutto questo caos è determinato dalla mancanza di giustizia. Senza questa complicità e senza l’impunità diventata legge di Stato, l’Est della Rd Congo non potrebbe essere così instabile. Ognuno ha la sua parte di responsabilità.
Il vulcano Nyiragongo ha dato un altro colpo duro al tentativo di rimarginare la ferita instabilità. Questo elemento può aggiungersi al piano dei diversi attori in campo di balcanizzare la regione per meglio agire e rubare?
La Rd Congo non sarà balcanizzata perché i congolesi non lo vogliono. Possiamo essere divisi ma non al punto da lacerarci completamente come vorrebbero i nostri vicini, in particolare il Rwanda. Certo il vulcano ha portato nuovi sfollati e ha messo in ginocchio la città di Goma ma la popolazione ha sempre una forza in più per andare avanti e ricostruire.
Abbiamo bisogno di segnali forti da parte delle istituzioni nazionali e della comunità internazionale ma anche di continuità nel nostro lavoro durissimo di tessere, giorno dopo giorno con tutti gli attori della società civile e le forze vive della nazione, la trama del tornare a vivere in condizioni normali e di pace. Ora è il momento dell’unità, ancor più dopo la catastrofe naturale del Nyiragongo.
Siamo un popolo unito dal destino, abbiamo già deciso di vivere per sempre in un unico paese e tutti i tentativi di balcanizzazione, voluta da alcuni in termini di sicurezza ed economia, saranno combattuti dalla base.
In che modo il governo sta monitorando la situazione della sicurezza? Ci sono visite sul campo? Riunioni di emergenza?
Il governo sostiene di avere in mano la situazione e di monitorarne gli sviluppi, il che è positivo, ma francamente non sta ancora facendo nulla di concreto in questo senso. Almeno non lo vediamo. Tutti gli aiuti umanitari sono forniti dalle ong, dai contributi volontari di cittadini congolesi, attivisti del movimento Lucha, le comunità cristiane. Chi è davvero vicino alle popolazioni più colpite sono le organizzazioni umanitarie, la società civile, la Chiesa.
Ѐ così difficile toccare con mano dei risultati concreti. Quali sono i motivi di speranza che abbiamo per pensare almeno di innescare un processo di vero cambiamento dentro una situazione così complicata?
Abbiamo fede in Dio, ci stiamo battendo con determinazione e questa è la nostra forza. Le popolazioni colpite sanno che su di noi possono fare affidamento e questo ci rincuora. Nei villaggi siamo noi a piangere a fianco della gente ma anche a pregare e a tirarci su le maniche insieme, per provare a resistere e organizzare la speranza nonviolenta.
La speranza è proprio che dentro una situazione di estrema violenza, esca con più forza e vinca la proposta nonviolenta del Vangelo della pace. Ci vorrà tanto tempo, gli interessi in gioco sono altissimi, ma ce la faremo perché noi giovani ormai siamo un’onda di trasformazione sociale inarrestabile, per la Rd Congo e per tutta l’Africa.