La gente in Repubblica democratica del Congo, dopo l’ultima tornata elettorale estenuante, sta vivendo in una «sorta di stato soporifero», tiene un basso profilo, la vita è tornata più o meno alla normalità. E la routine da queste parti significa spesso rassegnazione.
«Direi che non c’è delusione per il voto che riconferma il presidente uscente, perché oramai non ci si aspetta più il cambiamento. Tantissima gente addirittura non aveva neanche fatto richiesta di certificato elettorale», racconta don Davide Marcheselli, prete diocesano bolognese in missione nel Sud Kivu.
«Certamente qui c’è la consapevolezza che l’opinione del popolo non conta più di tanto e che i leader vivono in un mondo totalmente distante da quello della gente comune». Don Davide, attualmente associato ai saveriani nella parrocchia di Kitutu, racconta il contesto nel quale si trova: rurale, in una zona impervia che vive del lavoro dei campi ma anche di estrazione di minerali.
Siamo in una delle regioni più feconde di ricchezze del sottosuolo: «una realtà impoverita soprattutto da compagnie congolesi a capitale cinese», spiega il sacerdote. «Ci sono molti minatori improvvisati, questa è una zona ricca d’oro e anche di coltan». Uranio, rame e cobalto si trovano invece nel Katanga.
Un interessante report delle Nazioni Unite datato 2021 spiegava molto bene nei dettagli come oro e coltan venissero trasportati in canoa sul lago Kivu, dove i carichi della merce proibita erano nascosti in “compartimenti segreti” per aggirare i controlli, e arrivare indisturbati fino al Rwanda.
I ricercatori citano Rubaya, una piccola area del Congo orientale, che fornisce circa il 15% delle scorte mondiali di coltan. Delle miniere illegali e delle milizie che sfruttano manodopera per ricavarne merce redditizia si specifica ogni dettaglio.
Una prassi per lo più nota ma difficilmente testimoniata in modo così capillare. Un’inchiesta più recente di Africa Intelligence mostra come Rubaya sia al centro di un vero e proprio network di traffici illeciti di coltan.
«Il circolo vizioso della povertà e dello sfruttamento può essere spezzato solo con l’istruzione», ha dichiarato don Jean-Pierre Muhima Mutaka, responsabile dell’ufficio progetti della fondazione don Bosco a Goma.
Difronte all’illegalità, alla vasta zona grigia del far west delle miniere, tutto sommato il presidente rieletto Felix Tshisekedi, alleato, o comunque non inviso all’Europa, appare come una sorta di rassicurante certezza fuori dal Congo.
«Ѐ l’uomo che piace e che è utile all’Occidente – argomenta ancora con noi don Davide Marcheselli – ma è anche l’uomo che si avvicina sempre di più alla Russia e che tenta il distacco totale dalle Nazioni Unite, con l’allontanamento della MONUSCO, per dimostrare che il paese può farcela da solo a combattere le milizie armate nemiche, soprattutto l’M23».
Anche qui le alleanze cambiano e Tsisekedi «è molto in dialogo con Inghilterra e Stati Uniti, ma anche con la Russia di Putin». Da quanto risulta a chi lavora in ambiti diplomatici internazionali, «i russi non sono lontani in questo momento dal Congo e i cinesi sembrano più vicini che in passato».
Il punto però è smorzare il rischio di una guerra aperta col Rwanda e la presenza della Russia in questo senso non rassicura, mentre il ruolo degli Stati Uniti sarebbe cruciale per gettare acqua sul fuoco.
Qualche mese Al Jazeera si è chiesta, tramite una lunga analisi con interviste ad esperti, se una volta rieletto Tshisekedi possa dichiarare guerra a Kigali. «Le tensioni tra i due paesi potrebbero aumentare se non c’è alcuna pressione da parte occidentale, in particolare degli Stati Uniti, per una soluzione pacifica del conflitto» dichiarava Albert Malukisa, docente di Scienze Politiche nell’università cattolica del Congo.
Il sacerdote don Marcheselli spiega che la strategia di Tshisekedi di puntare molto sulla lotta al nemico interno, l’M23, ma anche al nemico rwandese, a suo avviso «non è tanto un amor di patria, ossia “cacciamo la MONUSCO per poter combattere il comune nemico assieme alle milizie armate ricompattate nell’esercito”, ma diventa una mossa di distrazione di massa per non affrontare altri drammi».
Il popolo congolese se c’è la guerra e si combatte contro “i cattivi”, contesta meno la situazione nella quale si trova: povertà estrema, mancanza di lavoro ed economia predatoria da ogni lato. Il Rwanda diventa così «un capro espiatorio perfetto e Tshisekedi ha giocato tutta la sua propaganda elettorale su questi elementi. Il suo è una sorta di populismo all’africana», dice il missionario.