Si aggrava ulteriormente la crisi umanitaria nel Nord Kivu, la provincia nord-orientale della Repubblica democratica del Congo epicentro delle attività di diverse milizie armate e teatro dell’avanzata del gruppo noto come M23. A peggiorare una situazione già precaria, con centinaia di migliaia di nuovi sfollati solo negli ultimi giorni, almeno due elementi: la crescente potenza di fuoco dei ribelli, che secondo Kinshasa, Nazioni Unite e parte della comunità internazionale sono sostenuti dal vicino Rwanda. E poi l’addensarsi dei combattimenti nei pressi di zone densamente abitate.
L’M23, sigla che sta per Mouvement du 23 mars, è un gruppo armato composto perlopiù da combattenti della comunità tutsi ed è solo una delle decine di milizie attive nel nord-est del Congo. Già nel 2012 questa organizzazione era arrivata a conquistare Goma, capoluogo del Nord Kivu abitato da circa un milione di persone. Dopo anni di inattività, il gruppo armato ha lanciato una nuova offensiva nel 2022. Da anni Kinshasa accusa Kigali di sostenere concretamente la milizia, sul piano finanziario e anche con unità militari presenti in territori congolese. L’ottica del paese presieduto da 30 anni da Paul Kagame sarebbe destabilizzare l’Oriente congolese e appropriarsi delle risorse minerarie di cui è ricco.
Le cifre della crisi
Gli ultimi giorni hanno visto una nuova, drammatica evoluzione della situazione. Secondo quanto riferito dall’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), l’M23 avrebbe preso il controllo della città di Nyanzale, circa 70 chilometri in linea d’aria a nord di Goma. In soli due giorni, circa 100mila persone sarebbero fuggite a causa dei combattimenti che si sono svolti in città. A questi cittadini sfollati vanno aggiunti i circa 215mila che si sono rifugiati verso Goma da febbraio sempre secondo l’OCHA, mentre in tutto in Nord Kivu gli sfollati interni sono circa 2,5 milioni.
Goma ne ospita circa 630mila. E la strategia dell’M23 sembra essere proprio accerchiare il capoluogo. Per questa ragione nelle scorse settimane si è combattuto duramente per prendere il controllo della città di Sake, situata a 20 chilometri dalla città più popolosa della provincia e ancora contesa. Nel frattempo l’M23 sembra essere riuscito quantomeno a isolare Goma. Diverse delle strade che permettono l’approviggionamento di cibo della popolazione sono già sotto il controllo dei miliziani, infatti.
Ad aumentare è anche il numero dei feriti colpiti da bombe e altre armi pesanti. Anche a causa dell’incremento degli attacchi in aree densamente popolate, in totale noncuranza del diritto internazionale umanitario. Lo ha denunciato il direttore generale del Comitato internazionale della Croce Rossa (ICRC), Robert Mardini, che si è recato in Congo per una cinque giorni di missione. «Quello che stiamo vedendo ora nella parte orientale del paese – ha lamentato il dirigente – è per molti versi senza precedenti ed estremamente preoccupante. Con l’ultima recrudescenza delle ostilità dall’inizio di febbraio, il 40% delle persone curate, fra le quali molte donne e bambini, sono vittime di bombardamenti o di altre armi pesanti utilizzate in aree urbane densamente popolate». Le violenze avvengono in una regione dove il sistema sanitario è in grave crisi e dove intere comunità ne sono di fatto totalmente prive, come riporta sempre l’ICRC in un report.
Un rebus per le missioni straniere
Un ruolo nell’escalation delle ultime settimane e mesi potrebbe giocarlo anche il sensibile miglioramento dei mezzi a disposizione dell’M23. Secondo un documento del panel di esperti dell’Onu sul Congo, visionato il mese scorso dall’AFP, la milizia si serve ormai normalmente di armi sofisticate come cannoni e sistemi di difesa anti-aerea all’avanguardia. Tutti elementi questi, che fanno pensare alla presenza di un’arsenale notevolmente rinnovato rispetto a quello dei primi anni ’10 del 2000.
Una forza di fuoco che ha spinto diversi analisti a prevedere tempi molto duri per il contingente della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (SADC) che si è installato a dicembre. La missione sostituisce un impegno analogo della Comunità dell’Africa orientale (EAC), il cui mandato per restare nel paese non è stato rinnovato dal governo del presidente Félix Tshisekedi dopo circa un anno di operazioni. Entro la fine di quest’anno inoltre, dopo quasi 25 anni di presenza, ritenuta per lo più fallimentare, anche la missione di peacekeeping dell’ONU, la Monusco, ritirerà le sue 15mila unità dal paese.