Una causa vinta su più fronti, quella che si conclude con la sentenza d’appello della Corte di Venezia, dopo un ricorso proposto dall’Asgi, Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, nel giugno del 2020. Una sentenza che riconosce una discriminazione dovuta alla mancata iscrizione obbligatoria al servizio sanitario nazionale dei genitori stranieri di un cittadino diventato nel tempo italiano, che aveva diritto, pagando le tasse, all’assistenza sanitaria dei familiari conviventi.
Un ricorso che arriva alla sentenza di condanna della regione Veneto che imponeva, non solo ai protagonisti della causa, ma a tutti i familiari extracomunitari ultrasessantacinquenni, a carico di cittadine e cittadini italiani, l’“iscrizione volontaria” a un servizio che la legge riconosce come obbligatorio. Iscrizione dovuta previo pagamento di 1.500/2.000 euro annui pro capite. Una decisione diventata prassi iniqua dopo una delibera della giunta regionale del 2019.
L’azione dell’Asgi arriva in seguito a una sentenza del tribunale di Padova che non riconosce la discriminazione e il diritto all’iscrizione ordinaria da parte dei familiari del cittadino italiano. Diritto negato di fatto dall’Ulss 6 euganea, in base alla delibera regionale che va contro le disposizioni dell’accordo stato – regioni – enti locali firmato nel 2012. Accordo che prevede l’iscrizione obbligatoria al servizio sanitario nazionale dei familiari di cittadini italiani che, seppur stranieri, hanno diritto a pari trattamento in quanto legati a un vincolo e conviventi.
Dando ragione a regione e Ulss, il tribunale padovano aveva accolto la lettura veneta e rigettato il ricorso dei genitori ultrasessantacinquenni albanesi di un cittadino diventato italiano che già versava allo stato la contribuzione per i familiari a carico. Accettando per buona la risposta della regione Veneto che pensava di non dover rispettare l’accordo stato – regioni perché “non ratificato dal presidente” e ignorando così che tali accordi non si ratificano, ma hanno carattere direttamente vincolante per regioni ed enti locali.
Più discriminazioni
La sentenza della Corte d’appello di Venezia mette in luce in questa storia più di una discriminazione nella delibera. Una discriminazione che riguarda l’età, visto che si fa riferimento a familiari ultrasessantenni. E una che riguarda il tipo di cittadinanza, facendo differenza tra i familiari di chi “abbia acquisito la cittadinanza italiana o comunitaria” e i chi invece è cittadino o cittadina dalla nascita.
Il familiare divenuto cittadino italiano, versando i contributi al servizio sanitario nazionale, aveva diritto, come tutte le altre persone, a una parità di trattamento nei confronti dei propri genitori. Se invece l’assistenza è negata e vincolata al pagamento di un’ulteriore cifra si è di fronte a una discriminazione dovuta all’origine straniera. Quindi una discriminazione di carattere collettivo.
La Corte, che condanna la regione Veneto, obbliga la giunta non solo a una modifica e a una tempestiva comunicazione delle disposizioni regionali finora applicate, ma anche a un ripristino delle procedure di iscrizione ordinaria obbligatoria in tutte le aziende sanitarie territoriali.
Chi, nel frattempo, e suo malgrado, si è trovato a dover sborsare l’esosa cifra che oscilla tra i 1.500/2.000 euro potrà far causa e agire per recuperare il costo di un diritto sottratto. Così come fatto dai protagonisti della vicenda giudiziaria che si vedranno rimborsare 9.638 euro, pagati dal 2019 al 2021 per aver garantito un diritto alla salute negato dalla delibera.
Mal comune in Friuli Venezia Giulia
Il Veneto non è l’unica regione a dover cancellare una discriminazione per sentenza, un’altra si vede costretta a depennare una propria legge dopo diverse impugnazioni e sentenze. In Friuli Venezia Giulia viene eliminata la norma sulle agevolazioni regionali per gli affitti che penalizzava le persone straniere residenti. La giunta regionale ha dovuto approvare una delibera con cui cancellava la richiesta, per cittadini e cittadine non comunitari, di dover presentare documenti che attestassero la mancanza di proprietà di abitazioni.
A differenza della cittadinanza italiana, le persone di origine straniere non comunitarie che richiedevano il contributo regionale per l’affitto non potevano ricorrere all’autocertificazione di mancato possesso di immobili, ma dovevano presentare documenti ufficiali del proprio paese di origine, tradotti, che attestassero che tutti i componenti del nucleo familiare fossero nullatenenti.