I finanziamenti che la Banca Mondiale concede ai privati affinché investano nei paesi in via di sviluppo spesso non prevedono un coordinamento con chi si occupa di diritti umani e pace e finiscono per provocare un aumento dei conflitti nelle regioni dove atteranno. È la conclusione a cui giunge uno studio pubblicato sulla piattaforma di divulgazione della ricerca Social Science Research Network (SSRN) e rilanciato dal media online indipendente The Conversation.
L’analisi è stata realizzata da tre ricercatori da tre diverse realtà accademiche di Sudafrica, Danimarca e Stati Uniti e si concentra su oltre 2mila progetti realizzati fra il 1994 e il 2022 con il sostegno economico della Società finanziaria internazionale (nota con l’acronimo inglese IFC), agenzia della Banca Mondiale che si occupa di finanziare lo sviluppo dell’industria privata nelle economie emergenti.
Gli autori del documento spiegano di aver selezionato l’IFC come caso di studio perché i progetti dell’agenzia «hanno il mandato di raggiungere obiettivi di sviluppo quali la riduzione della povertà, la creazione di posti di lavoro e la sostenibilità ambientale». L’ente «propone inoltre di applicare i più elevati standard di prestazione sociale e ambientale», al punto da essere ritenuto un punto di riferimento in questo senso da altri istituti pubblici e privati. L’IFC è quindi da considerarsi un ottimo indicatore di «come stanno le cose nel più ampio sistema globale».
Gli autori della ricerca affermano di aver applicato i più «sofisticati parametri econometrici per isolare l’impatto» dei progetti finanziati dall’IFC. Il risultato è stato che in media i progetti resi possibili dall’ente della Banca Mondiale causano un aumento di 7.6 «eventi di conflitto armato» nella regione interessata nell’anno successivo al loro avvio. Ne consegue un aumento delle vittime da conflitto armato. Con la definizione infatti gli autori del report intendono una qualsiasi manifestazione di violenza politica che provochi almeno un decesso.
Questi dati differenziano le aree in cui si trovano le iniziative finanziate dall’IFC da quelle dove queste sono invece assenti. Questa tendenza non è inoltre ravvisabile nel caso di progetti finanziati da altri enti collegati alla Banca Mondiale che si muovo tramite il pubblico e che destinano il denaro a governi e non a società private.
La dinamica negativa descritta dalla ricerca si manifesta con ancora maggiore intensità quando i progetti analizzati sono «a capitale intensivo», come quelli nei settori degli idrocarburi, infrastrutture, agrobusiness, telecomunicazioni e delle miniere.
Nel rapporto si specifica che questo tipo di investimenti sono spesso particolarmente dannosi per i contesti in cui si sviluppano perché più inclini a scatenare competizione per le risorse. I ricercatori hanno inoltre scoperto che la tipologia di progetto che genera i maggiori problemi è quella che, stando alle linee guida dell’IFC, «presenta limitati rischi ambientali o sociali potenzialmente avversi e/o impatti che sono pochi in numero, generalmente specifici per il sito, ampiamente reversibili e facilmente risolvibili con misure di mitigazione». Secondo gli autori del report quindi, o l’IFC non si cura di verificare che queste ultime misure vengano effettivamente messe in atto o propone una classificazione fallace dei suoi progetti.
L’esempio dell’Uganda
Vengono citati anche alcuni esempi di pratiche ritenute «particolarmente inquietanti» condotte nell’ambito delle iniziative citate. Fra questi, lo sfratto ai danni di oltre 900 famiglie imposto dal governo dell’Uganda per far posto a un progetto di agrobusiness di una multinazionale del settore.
Risulta difficile poi, secondo gli autori dell’analisi, portare l’IFC davanti a un tribunale per rispondere delle sua responsabilità in casi come quello dell’Uganda. L’ente si è sempre rifiutato di comparire davanti alle giustizia nazionali reclamando l’immunità in quanto organizzazione internazionale.
Numerosi i suggerimenti all’IFC evidenziati a conclusione del report. Fra questi, lavorare per «una migliore integrazione con le imprese e le realtà in difesa dei diritti umani e della pace» nei contesti «fragili e segnati da conflitti».
Il documento rilanciata da The Conversation fa il punto su pratiche e tendenze già denunciate in passato da diverse organizzazioni della società civile che chiedono una riforma della Banca Mondiale. Le richieste comprendono l’abbandono di un modello centrato sul finanziamento ai privati.