Qualsiasi sarà stato il numero dei manifestanti in Piazza san Giovanni il 5 novembre a Roma, la piazza va pesata il giorno dopo. E va depurata dalle tante tare che si è portata dietro e che c’entrano poco con il movimento della pace.
C’è chi si è mosso perché abbiamo una guerra in casa con una declinazione economica allarmante. C’è chi è stato attratto, come una falena, dalla luce delle petizioni di principio. C’è chi ha voluto presidiare questo appuntamento perché non vuole che l’avversario politico diventi interlocutore privilegiato dei pacifisti (M5S e Pd). C’è chi, disorientato, ha sperato di trovare un ragionamento convincente sul tema armi o non armi all’aggredita Ucraìna…
Il giorno dopo rimane il variegato movimento pacifista. Gli altri – cioè gran parte di sindacati, ong, associazioni laiche e cattoliche, ambientalisti, partiti, cani sciolti – tornano alle loro occupazioni e tanti saluti alla pace. E il movimento torna a fare i conti con le sue divisioni (da non confondere con diversità).
Con le truppe movimentiste che starebbero sempre in piazza a lanciare slogan ineccepibilmente etici, disinteressandosi della politica e sfornando, per lo più, iniziative culturali; e le truppe lobbiste che difendono la necessità di dialogare in maniera competente con la politica, incalzando e spronando i parlamentari, e che vogliono portare a casa risultati concreti, coniugando pace e disarmo, pace e obiezione fiscale, pace e politica estera.
Il movimento, abbiamo già avuto modo di rimarcarlo nella “bussola” dello scorso febbraio, non riesce a darsi un’agenda comune che stabilisca priorità e obiettivi. Un esempio nel nostro piccolo. Nigrizia spinge da 20 anni per radicare la campagna “banche armate”, un’iniziativa che chiede di non finanziare con i propri soldi il commercio di armamenti. Risultato: il mondo cattolico, cui è rivolta, non ha risposto. Dunque, le parrocchie e i movimenti si sciolgono davanti alle parole del papa contro la guerra, ma quando c’è da fare un gesto concreto e profetico guardano da un’altra parte. E anche il movimento della pace è tiepido sulla campagna.
Ci auguriamo che sia più reattivo di fronte alla possibilità che il governo di centrodestra tenti di indebolire la legge 185/1990 (conquista del movimento) che disciplina il commercio delle armi. Già ci ha provato il ministro Giancarlo Giorgetti la scorsa legislatura, ed è probabile che anche Guido Crosetto, braccio destro della Meloni e “uomo d’armi”, progetti di azzopparla.
Ancora un auspicio. Il movimento dovrebbe trovare le energie e le risorse per occuparsi anche delle guerre che avvengono un po’ più in là della soglia di casa. Per quello che ci compete, suggeriamo Sahel (jihadismo e migrazioni), Etiopia, Cabo Delgado-Mozambico, Rd Congo.
La pace non si ottiene a buon mercato e crediamo che nessuno voglia limitarsi agli slogan contro la guerra. Perciò da Piazza San Giovanni si tratta di ripartire, senza illudersi di avere milioni di seguaci. Il movimento non si stanchi di individuare i problemi, di elaborare soluzioni, di farsi sentire dalle istituzioni e dalla politica. Magari con una auspicata agenda comune.
Divisioni
Il movimento della pace esprime due anime principali. Una che fa capo alla Rete italiana pace e disarmo. Rete composta da una cinquantina di associazioni e diretta da un esecutivo di dieci persone elette in assemblea. L’altra che si riconosce nella marcia Perugia-Assisi, promossa da Aldo Capitini nel 1961, che si tiene ogni anno a ottobre. Oggi la coordina Flavio Lotti, in collaborazione con la comunità francescana di Assisi.