L’Unione Europea continua a trattare il Rwanda come un interlocutore privilegiato in Africa, soprattutto se ci sono minerali critici di mezzo, eppure neanche lo stesso territorio dell’Unione si dimostra un luogo sicuro per chi critica gli abusi del governo del presidente Paul Kagame. Anzi, proprio il paese dove risiedono le più importanti istituzioni europee, il Belgio, sembra essere il più pericoloso per la diaspora rwandese dissidente, presente in gran numero.
A sostenerlo è un lungo report pubblicato da EUObserver, testata che da oltre 20 anni si dedica a documentare e analizzare le relazioni internazionali dell’UE.
L’articolo della testata europea fa eco a un altro recente lavoro giornalistico: i Rwanda Classified. Frutto dell’operato di oltre 50 giornalisti da 17 testate da tutto il mondo e coordinata dall’organizzazione Forbidden Stories, la vasta indagine aveva documentato il sistema di repressione del governo Kagame e la capillare rete internazionale che permette ai suoi servizi segreti di raggiungere i dissidenti in tanti paesi del mondo, dall’Africa al Medio Oriente fino all’Europa e l’America settentrionale. Uno degli articoli che compone il mosaico i Rwanda Classified è dedicato alle attività dell’ambasciata rwandese in Belgio, descritta come una sorta di centrale distaccata dei servizi di intelligence nel cuore dell’Europa.
Tutte le denunce contenute nei due report non sembrano però smuovere le istituzioni europee dal continuare a fare affari con Kagame. Fra i diversi esempi che si potrebbero portare, emblematico resta il memorandum d’intesa «per la creazione di catene di valore durevoli e resilienti» per le materie prime critiche come i minerali, siglato lo scorso febbraio.
L’intesa non si limita a fornire un implicito endorsement alla leadership di Kagame, ma tocca un nervo scoperto: Kigali è da anni accusata dalla Repubblica democratica del Congo di sostenere una milizia armate, l’M23, nell’ottica di destabilizzare il paese ma anche, se non soprattutto, di contrabbandare le risorse che abbondano nel sui sottosuolo. L’accusa trova riscontro in alcune denunce del gruppo di esperti sulla Rd Congo delle Nazioni Unite oltre che in un’anomalia statistica che ha visto nel 2023 Kigali essere il primo esportatore di coltan al mondo, pur disponendo di molte meno miniere del grande vicino.
Un paese “speciale”
Molte delle persone oggetto delle “speciali attenzione” di Kigali sono accusate di esser negazionisti del genocidio del 1994. Fra aprile e luglio di quell’anno, esercito ed estremisti della comunità hutu uccisero non meno di 500mila persone (oltre un milione, secondo alcune fonti) della comunità tutsi, nonchè hutu che si opponevano alla carneficina. L’accusa, secondo diverse organizzazioni in difesa dei diritti umani e oppositori politici, è usata solo come un pretesto per reprimere il dissenso. Va comunque tenuta in conto la complessità della scena politica e sociale rwandese. Il paese, sotto il pugno di ferro di Kagame, sta portando avanti un processo di deetnizzazione della società ed è riuscito a non cadere più nella violenza intercomunitaria
Le relazioni con il Belgio
Prima di addentrarsi nei meandri del report, bisogna tener conto anche della peculiarità delle relazioni storiche fra Bruxelles e Kigali. Il paese europeo ha esercitato il suo potere coloniale su quello africano fra il 1924 e il 1962, anno dell’indipendenza, nell’ambito di un mandato che gli era stato affidato dalla Società delle Nazioni (l’attuale ONU) a seguito della fine delle prima guerra mondiale. Precedentemente infatti, il territorio degli odierni Rwanda e Burundi erano sotto il dominio coloniale tedesco. Stando a dati ufficiali al 2018, in Belgio risiedono non meno di 30mila persone nate o di origini rwandesi. Numeri che renderebbero quella belga la più popolosa comunità della diaspora rwandese nel mondo.
L’articolo di EuObserver, a firma del giornalista Andrew Rettman, 20 anni di esperienza su questioni legate a esteri e sicurezza, rilancia molte fonti anonime informate dai fatti. Non può essere altrimenti forse, vista la natura pericolosa delle vicende che si denunciano. Diversi comunque i dati “ufficiali” a supporto di quanto scrive Rettman.
A partire dallo status della sede diplomatica rwandese in Belgio, che al momento è priva di un ambasciatore e il cui staff, secondo le rivelazioni di EuObserver, che confermano quanto riportato da Rwanda Classified, annoverrebbe fra i sue membri diversi esponenti dei servizi di sicurezza. Fino addirittura a una “squadra di intervento” pronta ad agire contro i dissidenti in ogni situazione.
L’anno scorso, Bruxelles ha respinto l’accreditamento dell’inviato scelto da Kagame, il diplomatico Vincent Karega, già ambasciatore in Sudafrica e Repubblica democratica del Congo. Nell’ottobre 2022 proprio Kinshasa aveva dichiarato persona non grata ed espulso Karega nell’ambito delle già menzionate tensioni relative all’M23, protagonista da tre anni di un’offensiva nella provincia nord-orientale del Nord Kivu. I problemi fra Karega e il Belgio però, sembrano provenire più dalla sua precedente esperienza sudafricana.
Mentre Karega era a capo degli uffici diplomatici rwandesi in Sudafrica infatti, almeno fra il 2014 e il 2018, nel paese sono morti in circostanze poco chiare due cittadini belgi: Thomas Ngeze, esperto di diritto internazionale di origini rwandesi, figlio di un uomo condannato per il suo ruolo nel genocidio del 1994, e il suo avvocato Pieter-Jan Staelens. Nello stesso periodo è stato ucciso nel paese anche un ex capo dei servizi poi diventato critico verso Kagame, Patrick Karegeya. Sebbene manchi una versione ufficiale delle autorità belga, i sospetti sollevati da queste morti pare abbiano contribuito a motivare la decisione belga rispetto a Karega, riporta Rwanda Classified.
Rusesabagina e Mukwege
Nel report di EuObserver vengono anche citati diversi casi illustri. Su tutti quelli di Paul Rusesabagina, imprenditore e politico che contribuì al salvataggio di migliaia di persone durante il genocidio, “eroe” delle vicende raccontate dal film Hotel Rwanda. Rusesabagina è stato rapito e arrestato a Dubai nel 2020, condannato a 25 anni di carcere e poi rilasciato nel 2023 dopo la concessione della grazia da parte di Kagame. Il noto attivista è anche cittadino belga e la cooperazione, in questo caso regolare, fra le autorità giudiziarie rwandesi e belga ha quasi sicuramente facilitato il suo arresto a Dubai, questo avvenuto invece con modalità non conformi alle regole del diritto internazionale.
Nel report la figlia adottiva, Carine Kanimba, dà conto delle minacce subite e delle speciali misure di sicurezza che sono state suggerite alla famiglia da esperti europei e statunitensi in occasione di un suo ritorno in Europa: in Belgio certo, ma anche nei pressi di Verona, in Italia, dove Kanimba ha celebrato il suo matrimonio. Ci sono molto probabilmente questi timori, alla base della scelta di Rusesabagina di trasferirsi negli Usa, e non in Belgio, dopo la scarcerazione.
Ma a rischio, durante una sua breve permanenza in Belgio, sarebbe stato anche il premio Nobel per la pace del 2018 Denis Mukwege, medico congolese che si è anche candidato alla presidenza alle ultime elezioni del dicembre 2023. Mukwege è stato più volte critico verso le politiche di Kigali nella Rd Congo. Tanto sarebbe bastato, nel 2015, per rischiare un avvelenamento da parte di un agente rwandese che si era finto autista dell’auto di cortesia che era stata fornita al futuro Nobel dal Parlamento europeo.
Droplet letale
Nel report vengono descritte le numerose, sofisticate pratiche di avvelenamento utilizzate o quanto meno conosciute dai servizi rwandesi. E diversi altri casi di omicidio che sono stati attribuiti alla lunga mano di Kagame da attivisti, media e familiari delle vittime. Ultimo in ordine di tempo quello del musicista Rodolphe Shimwe Twagiramungu, figlio dell’ex primo ministro e avversario di Kagame Faustin Twagiramungu, trovato senza vita nel 2022 a Bruxelles e morto in circostanze ancora da chiarire. Ma c’è anche il caso di Juvenal Abingeneye, ex ministro scomparso e ucciso nel 2005 mentre testimoniava al Tribunale internazionale sui crimini in Rwanda. La figlia dell’ex ministro ha lamentato a sua volta di essere stata oggetto di minacce in tempi recenti.
Le pratiche che coinvolgono l’utilizzo del veleno, trasmesso anche tramite l’epidermide, con una stretta di mano, sarebbero talmente tanto diffuse da essersi guadagnate anche un nome specifico in Rwanda: vengono definite, in lingua kinyanrwanda, Utuzi twa Munyuza, ovvero le gocce della saliva di Dan Munyuza, ex ispettore capo della polizia nazionale, attualmente ambasciatore in Egitto. Il dirigente, anche sulla scorta di una intercettazione trapelata al pubblico in cui cospirava su come uccidere dissidenti, è ritenuto uno dei deus ex machina del sistema denunciato da EuObserver.