Il 24 marzo scorso la città di Palma, al nord del Mozambico, nella regione di Cabo Delgado, è stata teatro di un irruzione armata che ha lasciato sul terreno centinaia di morti e migliaia di sfollati. Nigrizia ha raggiunto telefonicamente Monsignor Luiz Fernando Lisboa, vescovo di Pemba, capoluogo della regione, dal 2013 al febbraio 2020, e da poco trasferito in Brasile. Un pastore con l’odore delle pecore, sempre dalla parte dei poveri.
Il dramma di Cabo Delgado non è forse stato sottovalutato dal governo mozambicano? Da più di tre anni ormai sono in corso scontri armati e pochissimo è stato fatto per risolverne i problemi
La situazione è stata effettivamente sottovalutata dal governo. Quando tre anni e mezzo fa è cominciato il conflitto, ho visto delle persone entrare nella provincia di Cabo Delgado in provenienza dalla Tanzania. Possiamo dire che erano musulmani radicalizzati: predicavano una visione rigorista dell’islam e ciò li faceva apparire estranei alle stesse comunità musulmane mozambicane. Il che li ha spinti ad azioni di violenza come avvenuto a Mocímboa da Praia, dove avevano attaccato edifici governativi e occupato per un breve periodo la città.
Oggi il discorso religioso è completamente sparito. Questi infiltrati avevano cominciato a criticare i musulmani locali, gente molto semplice, proponendo loro un nuovo stile di religione. Cominciarono poi a creare confusione anche tra i cristiani, inventandosi canti di disprezzo nei loro confronti: era questo il primo segnale da noi notato. In pochi giorni si erano create tensioni nelle comunità, cosa mai avvenuta prima.
Tanto i mussulmani locali che noi cattolici denunciavamo la situazione alle autorità politiche e militari. Ci sono state diverse riunioni tra mozambicani che facevano parte dei due gruppi e le cose sembravano essersi calmate. Successivamente però i conflitti e le discussioni all’interno delle comunità erano ripresi. Il governo ritenne che si trattava di un problema interno a gruppi religiosi e che quindi andava risolto dai responsabili stessi delle comunità.
In realtà però le autorità politiche non capivano che il problema era molto più serio e diverso da quanto pensavano. Il mio parere è che il governo ha sottovalutato il problema e che prima di intervenire ha lasciato trascorrere troppo tempo. La Chiesa aveva capito che il conflitto cresceva velocemente in intensità mentre il governo non coglieva che cosa stesse realmente accadendo.
Ma non solo ha sottovalutato il problema, ha voluto nascondere che si trattasse di una guerra complicata. Il governo ha anche impedito ai giornalisti di svolgere il loro mestiere e questo è stato un atto gravissimo: alcuni di loro sono stati ingiustamente arrestati, due sono rimasti più di due mesi nelle mani delle forze di sicurezza mozambicane e di uno di loro, dal 7 aprile 2020, si sono perse le tracce.
Non si sa che fine abbia fatto, nessuno dice niente, il governo nega e ai giornalisti è fatto divieto di parlare. In tutte le guerre sono i giornalisti che parlano, raccontano alla società che cosa sta accadendo. Nel caso di Cabo Delgado è stato loro impedito di investigare e informare. Chiunque si permette di dire che ha informazioni precise corre un grave rischio. Non ci sono giornalisti sul terreno, quindi il racconto di quanto stia accadendo dipende molto dalle fonti governative a dagli insorti.
Benché poco conosciuti, col passare del tempo, i terroristi hanno acquistato forza, arrivando a lanciare attacchi, con armi sempre più sofisticate, contro soldati e civili, facendo crescere così la necessità di assistenza umanitaria. La situazione è andata aggravandosi sempre più e il governo ne ha perso il controllo.
Da lontano è difficile capire l´origine della situazione. Gli uomini che attaccano le comunità sono estremisti islamici o banditi locali?
Da lontano non è facile capire chi siano realmente questi uomini, chiamati a volte aggressori insorti o terroristi. La loro identità non è chiara nemmeno ai mozambicani. Non è che ci sia una persona, un capo, con cui effettivamente negoziare o con cui almeno parlare. Non c’è un gruppo ben definito che rivendichi gli attacchi. C’è chi dice che una piccola parte degli estremisti vengano dal Kenya e dalla vicina Tanzania.
Gli assassini non hanno presentato un manifesto o un leader dal chiaro messaggio religioso, lasciando così molti nel dubbio a proposito delle loro tendenze jihadiste. L’estremismo è molto probabilmente solo una parte del puzzle; in questo momento più gruppi stanno operando nella regione con obiettivi diversi. La crescente sofisticazione dei mezzi per gli attacchi rivela un appoggio esterno, ma anche qui non tutto è chiaro.
Ricordo che all’inizio del 2020 erano cominciati i primi attacchi rivendicati dallo stato islamico. Gli insorti, però, avevano dato inizio agli attacchi a Cabo Delgado nell’ottobre 2017, quindi oltre due anni prima. Si ritiene che i primi aggressori fossero membri di al-Shabaab, una setta religiosa locale senza chiari legami con gli omonimi estremisti somali e che era apparsa a Cabo Delgado qualche anno prima.
Oggi la situazione è mutata: in realtà non si sa esattamente quale gruppo sia dietro gli attacchi. Diversi nomi sono stati attribuiti ai gruppi ribelli: sono in realtà gruppi estremisti, ma non ci sono solo giovani arruolati da gruppi esterni. Ci sono anche gruppi interni. I giovani della regione, infatti, non sono molto istruiti, non hanno un lavoro e, soprattutto, non hanno una prospettiva di futuro. Ecco perché molti giovani hanno aderito a questi gruppi: offrivano il “paradiso”.
Si è quindi formato un gruppo eterogeneo di giovani disoccupati, disertori dell’esercito, criminali comuni e in cerca di avventure. Giovani che non hanno niente e non sanno cosa fare, hanno così accettato di entrar a far parte del gruppo, guadagnando soldi inattesi perché sono un lusso qui a Cabo Delgado.
Sono riusciti a trascinare con sé molti giovani strappandoli alle famiglie povere della provincia e delle regioni vicine. Tutto questo è assurdo! Difficile comprendere come una banda relativamente piccola di giovani uomini si sia trasformata in assassini tanto spietati.
La popolazione locale che pensa dell’identità di questi gruppi? E come reagisce?
Certo, la popolazione si interroga sull’identità di questi gruppi, senza però arrivare a sapere chi siano realmente. Questi gruppi purtroppo hanno avuto la meglio nei tanti scontri con le forze di difesa e di sicurezza mozambicane, razziando loro macchine, cibo, armi e soprattutto uniformi che poi vestono. La popolazione è molto terrorizzata: quando sopraggiunge un gruppo di persone con la divisa, non si sa se siano militari oppure terroristi, visto che i due gruppi usano la stessa uniforme e le stesse armi.
La popolazione non sa ancora distinguere un poliziotto da un terrorista e quando in un piccolo villaggio arriva la macchina della polizia scappano, fuggono nei campi, se sentono un colpo di fucile scappano perché hanno paura. In diverse occasioni uomini in divisa militare hanno incendiato case arrivando addirittura a decapitare delle persone.
Gli anziani non hanno modo di fuggire, non ce la fanno a camminare nella boscaglia, mentre la gente più giovane cammina per quattro, cinque o sei giorni, per nascondersi. È così che molte persone anziane sono rimaste indietro. La sofferenza è ancora più grande.
Se posso sintetizzare in due parole quello che perennemente vive la gente di Cabo Delgado è paura e insicurezza. La paura è una malattia che paralizza, ma anche sminuisce le persone. La paura è un male che si può curare. Se ci uniamo e ne parliamo assieme, è possibile vincere la paura. Più volte la popolazione ha trascorso diversi giorni nascosta nella foresta.
Sono tante le persone che hanno definitivamente abbandonato i villaggi per andare a vivere in casa di parenti in posti più sicuri. Pur non avendo un volto, gli assassini hanno finito per confondere gli abitanti, dando luogo a sospetti di cospirazione interni alle comunità e il conseguente sentimento paralizzante di paura dell’ignoto e dell’incerto. Anche la mancanza di informazioni ha favorito l’insorgere di teorie complottiste.
Qual è il peso dei progetti delle multinazionali, di Total in primis, nel conflitto? Quali sono le vere ragioni degli attacchi e che cosa pretendono di ottenere da questi i terroristi?
L’argomento è importante, ma al tempo stesso molto difficile da discernere. È risaputo che Cabo Delgado è una regione molto ricca in risorse naturali. Ha uno dei più grandi giacimenti di gas non sfruttato del mondo, è una terra ricca in petrolio, pietre preziose, graffite, legname pregiato, “sequestrato” in grandi quantità dai cinesi. Da anni ormai è una regione saccheggiata e sfruttata in maniera predatoria da varie multinazionali.
Sono solito affermare che tre sono gli elementi, non solo in Mozambico ma anche in molte altre parti dell’Africa, che vanno sempre insieme: le risorse naturali, le multinazionali e le guerre. Là dove sono in corso dei conflitti in Africa, troviamo sempre risorse naturali e la presenza delle multinazionali.
Eppure, nonostante le consistenti risorse naturali, la regione è una delle più povere del Mozambico, con alti tassi di disoccupazione e analfabetismo. La presenza delle multinazionali non porta, almeno nell’immediato, benefici alla popolazione locale. La gente ascolta solo promesse, ma nei fatti continua a vivere nella povertà mentre vede la ricchezza della propria terra saccheggiata.
E questo crea ribellione, accresce la povertà e, soprattutto, crea divisioni interne alle stesse comunità e alle popolazioni. Il mio pensiero è che ci sono attori interni ed esterni che hanno interesse a mantenere il conflitto. Del resto è anche quanto ha dichiarato lo stesso presidente della Repubblica.
Sarebbe importante e un segno di coraggio identificare questi attori, perché sono tanti coloro che sanno chi sta lucrando con questa guerra o quali sono gli interessi, da dove provengono le armi, a volte anche pesanti, usate negli attacchi, chi le fornisce, chi controlla questa guerra.
Alle domande della popolazione qualcuno deve pur rispondere, perché quello che gli attacchi provocano sono dolore, distruzione, morte, fame e gente in fuga. Ciò che ho visto nei miei ultimi anni in Mozambico è che i grandi progetti delle multinazionali provocano molta sofferenza alla popolazione, e questo non solo a Cabo Delgado ma un po’ in tutte le regioni dove le multinazionali sono presenti.
Sembrerebbe che il nord del Mozambico sia una regione esclusa, in passato e in parte anche adesso, dalle politiche del governo. Quale ne è la ragione?
La guerra ha molte ragioni. Si è cercato di far credere che fosse una guerra interreligiosa, ma in realtà non lo è. Certo, non mancano elementi del fondamentalismo religioso, ma la guerra ha molto a che vedere con la povertà locale. Anche l’elemento etnico non va sottovalutato, ma la principale ragione della guerra è economica: dietro questa guerra ci sono enormi interessi economici!
Questa area di Cabo Delgado è stata dimenticata, abbandonata ed esclusa dagli ultimi governi. Il Mozambico rimane uno dei dieci paesi più poveri al mondo: non si è investito in politiche sociali nazionali. Cabo Delgado ha indici sociali molto bassi e non vi si è investito perché è una regione povera. Lo ripeto: uno dei principali fattori della guerra è la povertà che ha spinto molti giovani che sopravvivevano di un’agricoltura rudimentale, senza possibilità di sviluppo, ad arruolarsi nei gruppi terroristici, attratti dal denaro e dal potere.
La gente dei villaggi si ritrova ancora più povera: ha perso il poco che aveva, ha perso la propria casa, ha smesso di produrre… e la fame è cresciuta tantissimo in questi ultimi anni per via della guerra. La situazione è drammatica. E quando questa guerra sarà finita, ci vorranno anni per ricostruire.
E questo sia a livello di strutture fisiche distrutte che di persone. Perché questa umanità è composta da persone antropologicamente distrutte. La speranza è che i futuri governi investano nella regione, permettendo alla gente di uscire dall’estrema povertà in cui vive oggi a Cabo Delgado.
Come vive la Chiesa cattolica? Si è tentato di accusarla colpendola perché voce profetica dei poveri senza voce. Con comunità attaccate dai terroristi. Che lavoro sta portando avanti?
In questo conflitto la Chiesa cattolica ha pagato tantissimo: diverse cappelle sono state distrutte e bruciate; chiese importanti, storiche direi, come quella di Moçimboa da Praia sono state completamente distrutte; la chiesa della seconda missione della diocesi di Pemba, Nangololo nel distretto di Muidumbe, è stata distrutta, così come il centro di pastorale e la radio comunitaria, la clinica dentistica, la scuola materna per bambini fino a sei anni, il centro pastorale che ospita i catechisti quando vengono alle riunioni, dove abbiamo camerette per un massimo di cinquanta persone. I dormitori, le sale per la catechesi, la casa dei missionari e la canonica sono andati distrutti.
Che non si tratti di guerra interreligiosa lo conferma anche il fatto che non sono state distrutte solo le chiese cattoliche ma anche quelle evangeliche e alcune moschee. La Chiesa cattolica ha in questi mesi aiutato moltissimo la popolazione, soprattutto le persone più vulnerabili, gli sfollati, gente che perso tutto. Si sono aiutati non solo i cattolici ma tutti i bisognosi.
La Chiesa ha svolto un ottimo lavoro di accompagnamento, rimanendo vicina alla gente. Un lavoro importante è stato quello di informare la comunità internazionale di quanto stava succedendo a Cabo Delgado. Se i giornalisti non potevano esprimersi, la Chiesa non ha smesso di parlare, denunciare, nonostante le numerose critiche ricevute. Più volte si è tentato di imbrattare il nome della nostra Chiesa, soprattutto con menzogne, ma abbiamo cercato di mantenerci coraggiosi, continuando a denunciare al mondo le atrocità subite dalla popolazione di Cabo Delgado.
La Chiesa deve stare sempre dalla parte della verità; è di fatto voce di chi non ha voce. La Chiesa si è impegnata molto a livello umanitario, offrendo cibo e rispondendo ai bisogni primari di migliaia di persone. Molto importante è stato anche il contributo di papa Francesco, che da sempre ha voluto tenersi informato su quanto stava succedendo a Cabo Delgado. Più volte all’Angelus e in altre occasioni ha ricordato il dramma del popolo mozambicano chiedendo di pregare per noi.
Nell’agosto dell’anno scorso avevo ricevuto una telefonata di Francesco che intendeva mostrare la sua vicinanza a tutti coloro che soffrono, che vivono nella paura e che dormono nella foresta. Il papa ha donato 100mila euro per aiutare le persone sfollate per via della violenza, “in un gesto di carità pastorale”. La somma citata è destinata alla costruzione di due dispensari o centri di salute, uno a Chiúre, il distretto più popoloso di Cabo Delgado, e un altro a Montepuez, nel sudovest della provincia, lontano dagli attacchi dei ribelli.
Dopo aver perso tutto, l’assistenza sanitaria è tra i principali bisogni delle famiglie in fuga dalla guerra: la metà di loro è costituita da bambini. Il 18 dicembre scorso, papa Francesco mi aveva ricevuto in Vaticano. Avevamo a lungo conversato: gli ho spiegato la situazione nei dettagli. Lui ha espresso vicinanza e grande amore per le comunità colpite dalla violenza armata. La sua voce ha fatto sì che la guerra di Cabo Delgado venisse conosciuta a livello internazionale. Anche il parlamento europeo, dopo gli interventi di papa Francesco, si è mostrato più attento.
E i musulmani, che cosa dicono di fronte a questi attacchi?
Il nostro dialogo con l’islam è concreto: non abbiamo mai avuto problemi di religione e questo sia qui a Cabo Delgado che nel Mozambico in generale. Tra cristianesimo e islam c’è sempre stato un buon rapporto. In diocesi abbiamo realizzato molti lavori insieme e si svolgevano regolarmente delle riunioni tra i differenti leader religiosi.
All’inizio della guerra, i leader musulmani si erano distanziati dai gruppi terroristici. Ripetevano sempre: «Non sono dei nostri, sono banditi e come tali devono essere trattati». Alcuni di loro hanno sofferto come noi, alcune moschee sono state chiuse: il governo ha agito molto duramente contro i musulmani. Più tardi, quando anche il governo ha capito che i leader musulmani non avevano niente da spartire con gli atti terroristici, le cose si sono normalizzate.
Lo ripeto: i leader musulmani hanno più volte ripetuto che l’islam del Mozambico è contro questa situazione, non vuole questa guerra. Al nostro dialogo molto è servito l’incontro che papa Francesco ha avuto il 4 febbraio 2019 con il grande imam sunnita di al-Azhar, Ahmad al-Tayyib, ad Abu Dhabi e il documento sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune che ha firmato con lui, “con mio fratello Francesco”, coma lo chiama. Un invito storico alla tolleranza e alla fine delle guerre.
Quel documento è visto con molto interesse dai leader musulmani e in Mozambico ha avuto una vasta eco. Molto importante per il dialogo è stato anche il recente viaggio apostolico di papa Francesco in Iraq che ha incontrato l’altro grande leader musulmano sciita Alouk al-Husaynī al-Sistani.
Questi incontri, con i gesti che li hanno accompagnati, dicono il grande rispetto per l’altro. È molto importante che i responsabili religiosi siano esempio di rispetto e dialogo perché solo tramite il dialogo può nascere una pace duratura tra i popoli e le religioni.
Qual è stato il vero motivo del suo spostamento dalla diocesi di Pemba a Cabo Delgado a quella brasiliana di Cachoeiro de Itapemirim, conservando anche il titolo onorifico personale di arcivescovo?
La notizia è stata diffusa l’11 di febbraio, cogliendo molti di sorpresa. Perché questo trasferimento dopo 7 anni a Pemba? Innanzitutto, mai dimenticare che la Chiesa è per sua natura missionaria. È quindi normale che il papa trasferisca un vescovo da una diocesi all’altra. Normalmente il trasferimento avviene all’interno dello stesso paese, ma può anche succedere che un vescovo venga trasferito in un altro paese. Si tratta di casi piuttosto rari.
La diocesi di Cachoeiro di Itapemirim era senza vescovo dal 2018 e Francesco ha ritenuto che in questo momento la persona più adatta a essere il pastore di quella diocesi è dom Luiz… Non siamo però ingenui: ci sono di certo altre ragioni di questo trasferimento. Quando a dicembre ho parlato personalmente con papa Francesco, l’ho visto molto preoccupato per la mia integrità fisica, e me lo ha ripetuto più volte.
Storicamente, in Mozambico la Chiesa è sempre stata oggetto di molti attacchi, perché è sempre stata molto attenta a difendere la dignità della persona umana, dei diritti umani; è sempre stata la voce critica della situazione sociopolitica e dell’ingiustizia sociale. Ha sempre difeso i diseredati e non è mai stata diversa nel conflitto a Cabo Delgado; insomma è diventata politicamente scomoda.
La Conferenza dei vescovi mozambicani ha scritto delle lettere che mostrano la loro grande preoccupazione per quanto succede a Cabo Delgado; non ha fatto mancare diversi comunicati contro la guerra in cui si chiedono al governo decisioni e atteggiamenti per porre fine al conflitto. La Conferenza episcopale si è apertamente schierata in mia difesa: mi ha sempre incoraggiato a essere la voce del popolo. Non mi sono mai sentito solo o isolato.
Gli attacchi personali da parte di elementi legati al governo non sono però mai cessati: ho ricevuto minacce, non sono mancate calunnie e falsità, una campagna di diffamazione… e questo ha provocato un grande dibattito anche sui mezzi di comunicazione. Molti non accettavano le mie prese di posizione, si è messa in moto una strategia per non vedere ciò che era costruttivo nel mio messaggio, scorgendone invece un attacco personale al governo.
Tutto questo ha motivato senza alcun dubbio il mio trasferimento ad altra sede. Papa Francesco ha accesso ad altre informazioni, riceve dei dossier…e alla fine questa è stata la sua decisione. Personalmente sono tranquillo perché so per certo che la chiesa in Mozzambico continuerà il suo lavoro in difesa dei più poveri, dei più vulnerabili, dei più piccoli: questa è la natura della Chiesa.
Il mio grazie va a tutti i vescovi, al nunzio apostolico che mi ha sempre sostenuto. Sono certo che i vescovi saranno a fianco del nuovo vescovo, l’amministratore apostolico Mons. António Juliasse Ferreira Sandramo, vescovo ausiliare di Maputo, che certamente continuerà il lavoro pastorale, sempre dalla parte della gente. Un lavoro immenso è svolto dalla Caritas diocesana nell’assistere le vittime dei disordini con altre organizzazioni delle Nazioni Unite e della società civile per portare cibo, vestiti e riparo agli sfollati.
La chiesa di Cabo Delgado ha tentato in questi anni di realizzare quello che papa Francesco vuole dalla sua Chiesa, essere cioè “una Chiesa povera per i poveri”, “una Chiesa in uscita”, una chiesa missionaria che non rimane rinchiusa nei suoi problemi, preoccupata solo di guardarsi allo specchio, ma una Chiesa che si è preoccupata di andare incontro, soprattutto, ai più bisognosi.
Dobbiamo essere una Chiesa samaritana, misericordiosa, più profetica. Il mio desiderio è che il popolo di Cabo Delgado abbia più vita, maggiore dignità e meno povertà. Finalmente padrone del suo destino. Ovunque sarò, sarò sempre con il popolo di Cabo Delgado.