L’indice Fao dei prezzi alimentari (Ffpi) ha registrato una media di 133,2 punti nell’ottobre scorso, segnando un aumento di 3,9 punti (3%) da settembre e 31,8 punti (31,3%) da ottobre 2020. Dopo essere cresciuto per tre mesi consecutivi, a ottobre questo indice si è attestato al suo livello più alto dal luglio 2011. Rispetto allo scorso anno, secondo la Fao, si prevede che la produzione cerealicola mondiale per il 2021 aumenterà e raggiungerà un nuovo livello record, di circa 2.793 milioni di tonnellate.
Di converso, il consumo mondiale di cereali per il 2021/22 si sta indirizzando verso un aumento dell’1,7%, in previsione di un incremento del consumo alimentare globale di grano, che cresce di pari passo con una popolazione globale. Sui rialzi pesano molti fattori: i biofuel, l’aumento della domanda nei mercati emergenti, gli effetti del cambiamento climatico, ma soprattutto, nel breve periodo, la speculazione finanziaria attraverso strumenti derivati come i contratti «future» sui prodotti agricoli che hanno acuito la volatilità dei prezzi.
Si tratta di prodotti finanziari che non vengono più solo acquistati da chi ha un interesse diretto in quel determinato mercato, seguendo le tradizionali leggi della domanda e dell’offerta, ma anche da soggetti finanziari come i fondi pensione, le assicurazioni o hedge fund che investono grandi somme di denaro con l’obiettivo esclusivo di ottenere il miglior rendimento evitando la transazione reale dei prodotti in questione.
A questo proposito è bene rammentare che la crisi finanziaria dei mercati del 2008/09, travolgendo asset tradizionali come azioni e obbligazioni, ha determinato uno spostamento degli investimenti verso asset più sicuri e promettenti come le commodity (materie prime).
Ecco che allora si è generata una domanda artificiale che ha gonfiato i prezzi causando una vera e propria bolla finanziaria. La verità, spesso sottaciuta dalle classi dirigenti a livello planetario, è che il comparto delle commodity è soggetto a un evidente oligopolio in cui poche entità controllano segmenti chiave come cereali, fertilizzanti, prodotti di largo consumo in genere, incluse le fonti energetiche.
Insomma, un mercato non certamente concorrenziale e di certo niente affatto «libero» come spesso si dice a Wall Street. Sta di fatto che ai problemi causati dai cambiamenti climatici, che penalizzano anche le aree produttive del pianeta, si aggiungono i meccanismi perversi di un sistema finanziario che sta avendo ricadute drammatiche, in particolare sulle popolazioni africane. Parliamo di paesi in cui la gente destina più dell’80% del proprio reddito al fabbisogno alimentare e che nell’attuale congiuntura non sono assolutamente in grado di far fronte all’aumento dei prezzi del cibo.
Una cosa è certa, ad oltre un decennio dal fallimento della banca speculativa Lehman Brothers e dallo scoppio della bolla finanziaria negli Usa, non siamo ancora usciti dal pantano della crisi globale dei mercati. Eppure, tutti sanno che la crisi finanziaria che ha messo in ginocchio molti paesi non era un avvenimento imprevedibile, ma il risultato inevitabile dell’eccessiva finanziarizzazione dell’economia, del ruolo nefasto della speculazione, in particolare della finanza derivata e soprattutto della grande propensione al rischio.
Molte economie, compresa quella italiana, sono state pesantemente colpite nei loro sistemi produttivi e sociali. Nel frattempo i super ricchi del pianeta lo sono diventati ancor di più, mentre i poveri hanno superato il miliardo. La ricchezza si è vertiginosamente concentrata nelle mani dello 0,1% dei più ricchi del mondo.
I cittadini, le aziende e i governi, invece, continuano ad essere oggetto di continue pressioni per far fronte ai propri debiti. Nonostante i tanti summit internazionali le necessarie riforme non sono ancora avvenute. Invece, alle operazioni di bail out, cioè di salvataggio pubblico delle banche, è stato affiancato il bail in, cioè la possibilità di utilizzare anche parte dei depositi dei risparmiatori per salvare le banche in crisi!
Sarebbe ora che maturasse la visione di un sistema globale di relazioni e di interdipendenze reciproche a cui non è affatto estranea la definizione di un’economia alternativa che possa scoraggiare gli speculatori.
Ferme restando le critiche più che fondate all’idea stessa di un libero mercato per un bene primario come il cibo, l’ideale sarebbe quello di creare un sistema a doppia economia, vale a dire su due binari. La prima legata al soddisfacimento dei bisogni fondamentali a gestione collettiva, fuori dagli attuali meccanismi speculativi dei mercati (e qui il riferimento è innanzitutto alle commodity alimentari e alle fonti energetiche), mentre la seconda a conduzione privata, legata all’appagamento del superfluo.
Potrà sembrare utopistico, ma non v’è dubbio che a questo punto è urgente la definizione di un sistema alternativo, prima che sia troppo tardi. È il caso di citare un vecchio slogan coniato dai missionari e volontari negli anni Ottanta, ai tempi della gravissima carestia che colpì l’Etiopia: «Se la fame si nutrisse di parole il mondo sarebbe già sazio».