È necessario saper cogliere anche le sfumature che arrivano dal mondo politico africano. E saper collocare, pur in un contesto increspato da troppe contraddizioni, i segnali lanciati da una istituzione debole fin che si vuole ma non del tutto insipiente.
Dal 36° vertice dell’Unione africana (Ua), che si è tenuto ad Addis Abeba il 18 e 19 febbraio, è partito un segnale inequivocabile. L’organismo che comprende tutti gli stati del continente e che spesso è accusato di essere marginale e inefficace, ha detto a quattro stati guidati da giunte militari – Mali, Sudan, Burkina Faso, Guinea – che non sono tollerate prese del potere anticostituzionali e che dalla democrazia non si torna indietro. Insomma, non si può farla franca.
Sì, perché i militari dei paesi in questione – dopo essere andati al potere con la forza, tra il 2020 e il 2022, e dopo aver avviato transizioni che dovrebbero sfociare nel voto nell’arco di due-tre anni – hanno tentato di prendere una scorciatoia. Hanno chiesto cioè di essere riammessi nell’Unione africana dalla quale sono stati espulsi. E questo senza cedere il comando e senza che le traballanti transizioni siano compiute. La democrazia «va protetta e radicata» ha risposto l’Ua.
Stessa risposta hanno ricevuto Mali, Burkina Faso e Guinea dalla Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Cedeao). I tre paesi rimangono esclusi dall’organismo ragionale, proseguono le sanzioni economiche a loro carico e permane il divieto per i membri del governo di viaggiare nel perimetro della Cedeao.
Si potrà obiettare che i tre stati saheliani – oggi in mano a giunte militari, in un primo tempo accolte favorevolmente dal popolo – erano governati da presidenti invisi alle popolazioni perché incapaci di rispondere adeguatamente alla pressione esercitata dal terrorismo jihadista (diversa è la situazione in Sudan dove il generale al-Burhan ha interrotto nel 2021 una transizione gestita da un governo di civili).
La risposta che si può dare – e che implicitamente è anche quella arrivata dall’Unione africana – è questa. Popolazioni malgovernate, in gran parte con gravi problemi economici e negli ultimi anni vessate dalle incursioni di al-Qaida nel Maghreb islamico e del Gruppo stato islamico possono essere tentate di affidarsi a “un uomo solo al comando” che promette decisioni e soluzioni. Salvo poi accorgersi che neppure i governanti col fucile riescono a navigare con in poppa il vento degli interessi generali…
Dunque bene ha fatto l’Ua a mettere un punto fermo. Nella consapevolezza che la democrazia, per quanto imperfetta e in continuo divenire, riesce a darsi istituzioni e governi rappresentativi del volere degli elettori-cittadini.
Si potrà obiettare ancora che tra coloro che hanno deliberato pro-democrazia in sede Ua c’è il presidente della Tunisia Kais Saied, che è ben avviato sulla strada di accentrare su di sé tutti i poteri; c’è Macky Sall, presidente uscente dell’Ua e presidente del Senegal, che soffoca l’opposizione; c’è Abiy Ahmed, primo ministro dell’Etiopia, che non ha saputo evitare una guerra civile nel Tigray. E potremmo continuare a lungo.
Ma appunto anche l’Ua è imperfetta e in divenire.
Segnale inequivocabile
Nel corso di una conferenza stampa, Bankole Adeoye, responsabile del Consiglio di pace e sicurezza dell’Unione africana, ha dichiarato: «Abbiamo riaffermato la tolleranza zero contro i cambiamenti anticostituzionali di governo. L’Ua continua a essere intransigente contro ogni accesso non democratico al potere»