Da carcerato a capo di stato, in meno di due settimane. Ieri Bassirou Diomaye Faye, candidato dell’opposizione e braccio destro di Ousmane Sonko, è stato riconosciuto vincitore delle elezioni presidenziali al primo turno. «Il popolo senegalese ha fatto la scelta della rottura, per vedere realizzata l’immensa speranza suscitata dal nostro progetto di società civile» ha dichiarato nel suo primo messaggio post-voto.
I dati definitivi usciranno entro venerdì, ma quelli parziali sono già abbastanza chiari da incoronarlo 5° capo di stato del paese. Prima di lui: Léopold Senghor (1960-1980); Abdou Diouf (1981-2000); Abdoulaye Wade (2000-2012) e Macky Sall (2012-2024).
Amadou Ba, il candidato della maggioranza di governo, ha felicitato Faye in una conferenza stampa in tarda serata. Il presidente uscente Macky Sall ha fatto lo stesso con un messaggio su X. Si arriva così all’epilogo di un capitolo durato tre anni, in cui l’ascensione di Sonko ha incontrato la repressione di Sall. Un periodo eccezionalmente turbolento e drammatico per un paese da sempre considerato come tra i più stabili e più (formalmente) democratici della regione.
Dal fisco alla Presidenza: l’ascesa di Faye
44 anni compiuti ieri, prima di fare il capo di stato, Faye era un ispettore del fisco, al pari del suo mentore Ousmane Sonko, di cui è sempre stato il braccio destro politico.
Aspetto gentile, voce delicata, è iniziato ad apparire nel radar dei media internazionali con l’arresto arrivato nel 2023. La causa: un suo post pubblicato su facebook, critico del sistema giudiziario nazionale. Erano i giorni del processo Sweet Beauty, il primo di una serie di tre procedimenti giudiziari scattati contro Sonko, che i sostenitori di quest’ultimo ritenevano politicamente motivati.
A costargli 11 mesi carcere, in regime di custodia cautelare, era stata la seguente frase: «alcuni magistrati, una minoranza infima, si sono dati come missione di sgozzare, squartare e servire della carne fresca di oppositore al presidente Macky Sall, per fargli decidere in quale modo cucinarlo. Questo comportamento deve cessare».
Per sproporzionata che potesse sembrare la sua incarcerazione, fino ad allora Faye era solo una delle circa 1.000 persone finite in galera per motivi politici negli ultimi 3 anni. La sua notorietà ha fatto un balzo in avanti il 19 novembre scorso. In quel giorno, Pastef, il partito fondato da Sonko e di cui era vicepresidente, lo nominava candidato per le future elezioni presidenziali, previste inizialmente per il 25 febbraio.
All’inizio si trattava di un piano B.
Sonko rimaneva il leader indiscusso, ma era in galera. Più precisamente si trovava agli arresti domiciliari dal luglio 2023, per reati legati all’incitamento alla sovversione. Negli stessi giorni e per ragioni simili, Macky Sall aveva sciolto Pastef.
In quelle circostanze, Faye risultava più candidabile di Sonko, su cui pesava la minaccia di esclusione dal corpo elettorale, a causa di due procedimenti giudiziari in corso. Nel caso in cui cavilli giudiziari avessero impedito di far correre il numero 1 o 2 del partito, l’ex Pastef aveva sfornato anche un piano C. A inizio anno, aveva presentato una persona fuori dalle patrie galere, l’ex deputato Habib Sy.
Fin lì, si discuteva se Faye ce l’avrebbe fatta o meno a candidarsi alle elezioni. Un altro punto di svolta è arrivato il 20 gennaio, a poco più di un mese dalla data dello scrutinio (poi rinviato da Sall), quando il Consiglio costituzionale ha pubblicato la lista ufficiale dei candidati.
Come previsto: Faye era dentro e Sonko fuori. Ma a rimanere escluso era anche Karim Wade, capo del Partito democratico senegalese (PDS), neo-alleato di Sall e perno della sua strategia di contenimento degli ex Pastef.
Sfilata questa colonna, è crollato l’intero edificio della maggioranza di governo, la Benno Bokk Yakaar (BBY). Sall ha tentato di rimediare alla situazione con varie mosse, tutte maldestre e finite male. Ha tentato di rinviare le elezioni, sconfessare il Consiglio costituzionale e avviare un dialogo nazionale. Sforzi vani, che hanno portato solo ad affossare definitivamente il suo già debole delfino Amadou Ba.
La scarcerazione di Faye e Sonko del 14 marzo è stato l’ultimo tassello che ha permesso all’opposizione di pregustare la gloria.
Anche questo evento ha sorpreso i più. A inizio marzo, Sall ha promulgato una legge d’amnistia per i reati politici del periodo febbraio 2021-febbraio 2024. Ma non era scontato che venisse applicata ai due leader del fu-Pastef a dieci giorni dal voto. Una mossa del genere equivaleva a mettergli le ali da eroi vincitori. Gli stendeva il tappeto rosso verso il successo alle elezioni.
L’impressione è che Sall si sia reso conto di aver perso la partita e che abbia smesso di ostacolare la vittoria dei suoi rivali, data ormai come inevitabile.
I nodi politici
Ci sono abbastanza elementi per rispolverare analogie alla Davide contro Golia. Una forza politica esterna ai partiti tradizionali, che denuncia la corruzione e infonde nuove speranze nella popolazione, incontra la repressione delle forze al potere e infine la spunta contro i suoi avversari. È un lieto fine epico per i pro-Pastef. Lo è anche per tutto il Senegal?
Questo sarà tutto da vedere e dipenderà molto dalla capacità di governance che Faye, Sonko e il loro entourage sapranno dimostrare. Il timore principale è legato qui, non tanto alla loro inesperienza come classe politica, quanto ad alcuni tratti populistici dei loro programmi.
Non che la coalizione di governo BBY sia senza peccato su questo fronte, ma i dubbi sulla concretezza di Pastef rimontano all’unico documento programmatico degno di nota che abbiano presentato finora. Si tratta di Solutions, un pamphlet a firma di Sonko e pubblicato nel 2018.
Vi si trovano ricette piuttosto generiche sulla gestione dello stato. Con un’abbondante dose di panafricanismo e nazionalismo a legare il tutto. Per portare avanti la seconda economia dell’Africa francofona occidentale ci vorrà più di questo.
A parziale giustificazione di Sonko & co. va detto che gli ultimi tre anni li hanno dovuti dedicare più a difendersi in tribunale che ad altro. Ma da oggi, tanto per i cittadini senegalesi quanto per gli investitori internazionali, il passato conterà sempre meno del presente e del futuro.
Quanto anti-francesismo?
Sin dagli albori di Pastef, nato nel 2014, Sonko aveva mostrato una critica radicale al legame con la Francia, accusandola di coltivare l’odiata françafrique, ovvero la politica neocoloniale di sfruttamento delle ex colonie francesi in Africa, tra cui rientra anche il Senegal.
Simbolo della perdurante influenza di Parigi è la moneta comune usata in 14 paesi dell’Africa subsahariana: il franco CFA. Ancorata prima al franco francese e poi all’euro, è considerata da molti nazionalisti (in tutto il continente) come uno massimi strumenti di controllo in mano alla Francia.
Non è un caso, se gli stessi regimi golpisti di Mali, Niger e Burkina Faso, hanno già dichiarato di volerla rimpiazzare con una nuova valuta comune (che ci riescano è tutto da vedere). Ma questa prossimità sull’anti-francesismo e in generale sulla critica alle potenze occidentali è un elemento centrale di riflessione delle varie cancellerie internazionali.
Finora, Faye e Sonko nei pochi discorsi pronunciati dalla loro scarcerazione ad oggi, hanno dato prova di equilibrismo, rassicurando gli animi internazionali, senza sconfessare il loro radicalismo.
Alla sua prima dichiarazione post-liberazione, Sonko ha detto che vuole «andare verso qualcos’altro», ma «all’interno di discussioni». Discorso simile sul fronte settore estrattivo, dove punta a rispettare gli accordi presenti con gli investitori, per poi rinegoziarli alla prima occasione.
Sarà questo il cammino che intraprenderà anche sul fronte del più grande giacimento di gas e petrolio mai scoperto in Senegal? È uno dei banchi di prova principali di fronte al paese. Il suo sfruttamento può diventare un jackpot per ambiziosi programmi sociali, oppure aggiungersi alla già tristemente lunga casistica di maledizione delle risorse prime.
Una vittoria per la democrazia
Non è mai facile passare dall’opposizione (in cui è possibile spacciare slogan per soluzioni) al governo (dove bisogna far quadrare i conti). Ad ogni modo, in Senegal va celebrato il successo di una mobilitazione dal basso che è riuscita a spuntarla contro un governo da cui hanno ricevuto prove di arroganza e violenza.
Alla festa, si aggiunga anche la fermezza del Consiglio costituzionale, il più alto organo giuridico dello stato. I suoi interventi negli ultimi due mesi sono stati fondamentali per contenere le derive autoritarie di Sall.
In tempi di crisi mondiale della democrazia liberale, della separazione dei poteri e di scarso attivismo politico, tutti questi successi brillano di luce propria.