Monsignor Christian Carlassare, 43 anni, missionario comboniano originario di Piovene Rocchette (VI) è in Sud Sudan dal 2005. Ha lavorato per undici anni nella parrocchia di Holy Trinity (Old Fangak County), nello stato di Jonglei, nella parte orientale del paese, dove ha imparato la lingua e la cultura nuer.
Dal 2017 si è occupato a Juba, capitale del Sud Sudan, della formazione dei giovani comboniani sudanesi durante i primi passi missionari. Dal 2020 a oggi è stato vicario generale della Diocesi di Malakal, nel nordest del paese. L’8 marzo scorso Papa Francesco l’ha nominato vescovo nella giovanissima diocesi di Rumbek, al centro del paese, nata solo nel 1975, dove sono presenti soprattutto cristiani dinka, l’altra grande etnia del paese.
Prima della sua consacrazione episcopale, prevista per il 23 maggio di quest’anno, è stato vittima di un agguato a Rumbek dove i due assalitori gli hanno sparato alle gambe nella notte tra domenica 25 e lunedi 26 aprile scorso. Decine di persone sono state arrestate, tra cui autorevoli responsabili della diocesi di Rumbek, e le indagini sono in corso.
Nigrizia lo ha raggiunto al telefono, nel suo letto d’ospedale a Nairobi, non per tornare su trame e sviluppi della violenza subita ma per ripercorrere insieme il suo tragitto di fede e intercettare gli spunti missionari che si aprono per la Chiesa a partire da quella particolarissima periferia geografica, così cara a Papa Francesco.
Come hai sentito nascere in te il desiderio della missione? Ci sono state figure particolari di riferimento che ti hanno ispirato?
Tutto è nato fin da quando ero bambino, in famiglia. Ho sempre sentito una grande attrazione per ciò che è giusto, bello, eroico o santo. Per guardare sempre oltre ciò che supera le attese della normalità. Mi ha segnato la figura di uno zio missionario in Ecuador, della congregazione dei Giuseppini del Murialdo. Era il mio ideale di persona realizzata, felice, che vive per gli altri. Devo moltissimo alla mia famiglia, dove ho respirato una fede sempre aperta all’alterità e alla comunità cristiana, vero centro di aggregazione per tutto il paese dove ho incontrato figure molto belle di preti, animatori e catechisti.
Per me la fede era fondamentalmente impegno e questo mi procurava grande gioia. Ricordo il percorso all’interno dell’azione cattolica che ha marcato le mie scelte future. In un campo ad Assisi ho respirato per la prima volta lo spirito della vita religiosa, di san Francesco, e mi son detto: “Sarò religioso”. Poi un ritiro a Padova, dove è nato il desiderio di essere prete e l’incontro con i missionari comboniani in occasione del martirio di padre Egidio Ferracin, in Uganda, il 4 agosto del 1987.
Da quel momento cominciai a ricevere e leggere il Piccolo Missionario, la rivista dei comboniani per i ragazzi, e la passione cresceva dentro. Quando nel 1991 celebrammo il funerale dello zio missionario piansi, perché non ero ancora riuscito a confrontarmi con nessuno a proposito di questo desiderio che portavo in cuore. Ricordo che, durante il funerale, guardai al tabernacolo e sentii un grande incoraggiamento nel percepire che il Signore mi avrebbe aperto la strada.
L’anno dopo iniziai a frequentare la casa dei comboniani di Thiene e diventai amico di alcuni dei missionari con cui mi sono molto identificato. Mi hanno accompagnato e aiutato a esprimere i miei sentimenti, con sincerità, così come ero. Nel ’94 entrai a fare un’esperienza in quella comunità mentre completavo la scuola superiore e da lì è cresciuta la vocazione missionaria. Fra tutti i comboniani, mi ha segnato l’incontro con padre Giovanni Fenzi, missionario in Sudan. Mi ha accolto e fatto innamorare dell’Africa.
Com’è stato il primo impatto con il Sud Sudan? Con la gente, la cultura. Cosa ti ha aiutato ad inserirti?
Prima di tutto voglio ricordare gli 11 anni di preparazione, dal 1994 al 2005, che ho fatto nelle case di formazione in Italia. Una preparazione a distanza, ma forte, paziente, che mi ha fatto arrivare in Africa con un grande desiderio e una grande energia. Ero giovane, avevo 28 anni, e questo mi ha permesso di proiettarmi al 100% in questa missione tra i nuer come se non ci fosse nient’altro per me. Tutta la mia mente, forze, energie sono state investite nell’entrare, conoscere, amare, condividere il Vangelo con questa gente.
Ho sentito da subito l’isolamento più completo dal resto del mondo. Non avevamo telefono, internet, elettricità. Eravamo in un piccolo villaggio, tagliati fuori dal mondo. Non sapevamo cosa succedeva fuori se non quando uscivamo una volta all’anno ma questo ci ha permesso di inserirci in modo unico nella comunità locale come l’unica realtà che in quel momento davvero contava.
Assolutamente controcorrente rispetto alla realtà moderna dove rischiamo di partire in missione e poi siamo più collegati su internet con persone dall’altra parte del mondo che con le persone stesse con cui viviamo.
Ho capito che per essere missionario qui dovevo accogliere la realtà così come è e non come l’avrei voluta o come avrebbe dovuto essere. Sentivo che la mia missione era fare la mia parte dentro quella realtà.
Mi ha aiutato la simpatia della gente anche se non tutto, nella lingua e nella cultura del posto, era così facile da accettare. L’osservare, ascoltare, capire senza giudicare e assimilare, mi ha aiutato a conoscere e pian piano a mettere insieme tutto il puzzle. E’ stata una profonda immersione nella realtà che vive la gente, cercando di non usare troppi paragoni, confronti, giudizi sulle cose che poi rischiano di portarci a non capire nulla della gente.
Mi ha colpito da subito la grande povertà che ho incontrato, non tanto di risorse, perché nessuno mancava di nulla. Avevano bestiame, latte e cibo. Ma non avevano mezzi. Mi chiedevo: “Ma come faremo a portare avanti la missione di diffusione del Vangelo, la scuola, lo sviluppo senza mezzi?” Ci mancavano completamente i mezzi.
Ma ho scoperto che il mezzo principale non erano le risorse, il computer, l’elettricità, i soldi, o qualsiasi cosa. La risorsa più grande era la persona. Anche per la gente stessa, la loro risorsa principale è la disponibilità di ogni persona di essere parte di quella società e così noi missionari abbiamo vissuto la stessa esperienza. La missione parte non da quello che abbiamo o possiamo ottenere, ma dalle persone stesse che siamo e dalla capacità di dare speranza da ciò che siamo come persone.
I riferimenti più importanti che ho avuto nei primi anni sono stati proprio i confratelli che hanno lavorato in questi contesti. Missionari di grande esperienza, umanità e apertura non solo mentale, ma anche culturale e religiosa. Tra loro Alberto Modonesi, Luciano Perina, Francesco Chemello e sicuramente, per il metodo pastorale di inserzione e la testimonianza di povertà radicale, Antonio Labraca.
Quali aspetti della cultura nuer ti sono sembrati più vicini al Vangelo?
Il Vangelo si contagia attraverso le categorie culturali che troviamo già presenti fra la gente e questo è molto importante. Quindi non un portare da fuori concetti impregnati di altre culture e contenuti astratti ma riconoscere e far germogliare da dentro alcuni valori che sono già presenti. Ciò che ho trovato di più vicino alla sensibilità del Vangelo è la forza di questo popolo e la dignità della vita.
Cioè la vita prima di ogni altra cosa. È un valore fortissimo nella realtà nuer. La vita va sempre preservata dal suo nascere fino al suo morire. Non importa se sia forte o debole, sano o malato, giovane o vecchio ma la persona ha una dignità immensa e va rispettata. Infatti, i casi di violenza più eclatanti o di conflitto si verificano quando non si riconosce la dignità di una persona, di quello che sente, desidera, o quando non è ascoltato.
Un altro aspetto stupendo nella realtà nuer è l’uguaglianza di ogni persona. Non ci sono classi sociali, chi sopra chi sotto, chi capo chi servo. No. Ogni persona ha la propria dignità, anche se in realtà l’uomo è considerato più della donna. Ogni uomo è un capo famiglia. Non c’è uno che è più capo di un altro, anche se esiste la persona a cui viene chiesto di assumere la responsabilità di coordinare le famiglie. Quindi un capo del gruppo o chi assume una pozione a livello di governo. Però l’uguaglianza di ogni persona rimane comunque intatta.
Anche se uno ha una posizione di prestigio a livello sociale, è ad esempio un medico o il presidente stesso, gli viene riconosciuto il ruolo che ha però non è più importante di altri. Per questo non è raro vedere persone in posti di responsabilità che si atteggiano con grande umiltà e vicinanza agli ultimi. Ci sono persone molto semplici nelle comunità che comunque hanno l’orgoglio e la confidenza di relazionarsi con gli altri allo stesso livello perché sempre e prima di tutto persone. Questo l’ho imparato dai nuer e lo terrò sempre con me.
Ci sono anche altri punti da sottolineare: l’importanza della partecipazione, di essere attivi. Tutti nella società si danno da fare per migliorare le condizioni di vita. Ovviamente se una persona ha di più condivide di più. Se una persona ha di meno condivide di meno ma tendenzialmente è una società a cui a tutti viene chiesto di partecipare, di essere attivi, responsabili e quindi anche di condividere. Nessuno è più ricco di un altro perché tutte le proprietà praticamente sono comuni. Tutto quello che c’è nella comunità viene usato ed è per il bene di tutti.
Merita una menzione l’accoglienza. Quella riservata allo straniero, ai viandanti, così importante in una cultura seminomade, dove il continuo movimento fa sì che ci sia una fitta rete di solidarietà fra chi è stanziale, più spesso le donne con i bambini, e chi viaggia. La donna, quando cucina ogni giorno, sa che deve cucinare per la famiglia ma anche per l’ospite che capiterà prima di sera. Ospito perché so che sarò anch’io ospitato.
Un punto che mi piace davvero tanto dei nuer, e comunque anche di altre etnie nilotiche, è questa sicurezza di sé che li aiuta ad essere aperti. Ad esprimersi per quello che sono senza complessi di inferiorità e con grande desiderio di libertà di essere quello che sentono di dover essere, mai di essere forzati in qualcosa. Questo li caratterizza anche nel tipo di leadership che instaurano e che non è mai sottomissione.
La sottomissione non funziona fra i nuer. Quando ci sono degli incontri sia a livello di società che di Chiesa, e ci sono delle decisioni da prendere, bisogna sempre arrivarci in modo consensuale attraverso lunghi e pazienti percorsi di dialogo e di confronto. Mai imponendo qualcosa dall’alto al basso perché sarebbero rigettate, anche se si tratta di decisioni buone, ma non prese insieme. È bella questa dinamica che rende solida la comunità.
Com’è cambiato il tuo rapporto con Dio in questi anni di missione? Che comunità cristiane hai incontrato? In cosa si assomigliano alle prime comunità degli Atti degli apostoli? Cos’hai imparato da loro?
Ho incontrato un Dio presente in molte forme e in molti modi, e che spesso non mi aspettavo, nelle persone più diverse, nei più poveri, nella persona più semplice e distante. Lì il Signore parla forte. Trasforma i cuori.
In tutti questi anni di missione ho sentito Dio profondamente presente nella mia vita e nella vita della gente come colui che guida, parla, accompagna. Non mi sono mai sentito solo. L’ho sempre sentito a fianco e tutto quello che succedeva ogni giorno aveva un senso: sia si trattasse di qualcosa di gioioso sia di una fatica. Ho scoperto un Dio presente, fra la gente. Un Dio che va adorato e contemplato nella vita concreta, non solo nel libro sacro ma nella vita sacra della gente, nella sua semplicità.
E’ cambiato il mio rapporto con Dio? Certamente è cresciuto. Sono arrivato in Africa appena ordinato prete. Come ho sempre ripetuto alla mia gente, le mani del vescovo Flavio Carraro mi hanno ordinato prete a Verona ma è stato il popolo del Sud Sudan a farmi diventare davvero guida, pastore, fratello per fare con loro causa comune.
E a farmi scoprire il volto di Dio, unica forza che dà vita, che fa vivere e superare difficoltà immani dovute allo stile di vita molto difficile nell’ambiente nuer ma soprattutto alle realtà del conflitto, ingiustizie e uccisioni. Il Dio della vita che dà forza alle persone e valorizza questa vita come qualcosa di davvero importante, l’essenziale per cui non si può vivere senza questa presenza, perché tutto non avrebbe senso e comunque non si riuscirebbe a superare e far fronte alla vita se lui non fosse presente.
Praticamente cosa hanno trovato i missionari arrivando qui? Hanno incontrato delle comunità già sedimentate ma che avevano bisogno di fare un percorso di comunione per imparare a stare insieme, a organizzarsi, a ricevere i sacramenti e vivere un percorso di Chiesa, superando insieme quelle difficoltà che stavano incontrando.
Quali difficoltà ho incontrato? Prima di tutto il fatto che formare queste comunità era stata una necessità per i catechisti anche di emergere. Non potevano essere capi locali, non erano tanto scolarizzati, però essendo catechista diventavano dei leader. E questo era molto attraente per alcuni che si lasciavano prendere dall’orgoglio. Poi c’erano varie problematiche di competizione tra leader, tra le comunità e spesso anche grosse conflittualità, tanto che facevano fatica a incontrarsi o intraprendere un percorso comune. Risultavano comunità un pò a sé, con le proprie originalità e grandi diversità.
Poi non c’era tanta formazione. C’era semplicemente l’insegnamento delle preghiere e una forma rudimentale di catechismo. Alcuni catechisti battezzavano a spron battuto senza pretendere scelte importanti di vita cristiana. Anche la comprensione dell’essere Chiesa era molto limitata e spesso la grande quantità di giovani che si radunava in queste comunità era più che altro per un senso di appartenenza e un ritrovarsi insieme per cantare e danzare, più che per un vero cambiamento di vita. Per questo l’arrivo dei missionari è stato davvero importante e ha dato un contributo profondo.
Le comunità cristiane fra i nuer sono molto interessanti perché fondate sui laici e sulla fede. I nuer praticamente hanno sempre rifiutato l’evangelizzazione perché lo sentivano un processo importato dall’esterno, dai missionari. Questi ultimi non si sono mai veramente fermati tra loro, specie quelli cattolici, ma anche quelli protestanti non hanno mai avuto grande successo.
Però quando i nuer sono usciti dalle loro terre a causa del conflitto, negli anni ’70, soprattutto a Khartoum, e negli anni ‘80 in Etiopia, si sono mescolati con altre culture e hanno registrato le prime conversioni. Queste persone non si sentivano solo convertiti a essere cristiani ma anche inviati a condividere quello che avevano imparato con una forza straordinaria. Allora quando tornavano da Khartoum o, dopo gli anni ’90, dall’Etiopia, si sono sentiti chiamati a radunare le persone e le famiglie, attorno a delle piccole comunità cristiane.
Ovviamente era ancora difficile parlare di Chiesa in sé perché erano tutti un po’ divisi visto che ogni “figura carismatica” (ogni catechista così si faceva chiamare) radunava prima di tutto la propria famiglia, il proprio clan, e figure simpatizzanti però non erano molto uniti fra loro. Solo successivamente hanno iniziato, grazie alla figura di alcuni catechisti, a coordinarsi e a essere collegati in qualche modo gli uni agli altri, anche se l’individualità di ogni comunità cristiana restava molto forte.
Erano comunque simili alle comunità cristiane degli inizi perché formate da laici di fede semplice e resistenti in un contesto di conflitto, quindi solidali per affrontare tutte le difficoltà che avrebbero incontrato. E questo è sicuramente molto bello. Solo successivamente nel ‘96 i primi preti sono arrivati per stabilirsi lì: Antonio Labraca, Fernando Gallarsa e tutti quelli che dopo hanno seguito.
Quali vie profetiche intravedi per l’evangelizzazione in Sud Sudan oggi? Come i documenti e il messaggio di Papa Francesco possono essere praticati concretamente nella missione?
Le vie vanno battute. Ovviamente alcune possono essere più profetiche di altre. Penso che in fondo l’evangelizzazione sia sempre un cammino fatto su più strade: da chi è passato prima di me ho sempre da imparare. Camminerò pertanto su quelle stesse strade magari arricchite anche delle novità che nascono strada facendo.
In Africa scopriamo che dobbiamo fondare l’evangelizzazione sulla fede grande della gente per farla diventare anche scelta di vita personale e comunitaria. Dobbiamo costruire comunità. Spesso si dice che la prima evangelizzazione è parlare di Gesù a chi non ne ha mai sentito il nome. Io non sono tanto d’accordo. Penso che prima evangelizzazione è costruire Chiesa dove ancora non c’è.
Ormai tutti hanno sentito parlare di Gesù ma non c’è ancora il suo corpo che è la Chiesa. Non tanto la gerarchia ma la comunità. Dobbiamo lavorare molto per mobilitare la comunità, favorire la partecipazione, promuovere le piccole comunità cristiane, che trovano soluzioni alla realtà ispirate dal Vangelo, ma che in Africa orientale ancora arrancano.
Vie profetiche per l’annuncio del vangelo in questo contesto? La pastorale della famiglia che è inesistente e sarebbe fondamentale per creare comunità visto che le famiglie ne sono la base, evangelizzare la politica rafforzando il senso civico della gente, formando le coscienze, la partecipazione alla vita sociale, il lavoro nel settore di giustizia e pace che dovrebbe essere presente in tutte le diocesi e parrocchie. Ancora serve evangelizzare l’economia rendendola solidale e non predatoria e disumana fagocitando tutto, come avviene a livello nazionale. Poi ovviamente l’attenzione ai più poveri e abbandonati.
Dobbiamo avere una visione nuova di Chiesa, creativa, vivace, vicina alla gente. Fondamentalmente c’è bisogno di un Concilio Vaticano III su tanti aspetti legati ai sacramenti, alle strutture, per arrivare al cuore del messaggio cristiano come indica Papa Francesco.
Oggi la missione chiede di fare i conti sempre più con un sistema profondamente ingiusto che si arricchisce sulle spalle dei poveri. Come toccate con mano e denunciate questo in Sud Sudan? Quale speranza annunciate?
Questa domanda mi ricollega con l’idea del locale e del globale. Nel senso che dobbiamo evangelizzare localmente però il sistema ingiusto è globale e estende i suoi tentacoli a tutte le comunità. Noi missionari rischiamo a volte di concentrarci in una particolare realtà vedendo solo i problemi locali. Questo ci succede in Sud Sudan perché sono davvero tanto i problemi: dai conflitti alle armi, dallo sfruttamento delle risorse, come terra e petrolio, alle divisioni etniche.
A volte dico alla gente: “Stiamo qui ad ammazzarci per un corso d’acqua dove portare le vacche? Ma ci rendiamo conto che ci sono guerre molto più pericolose di quelle del Sud Sudan? Stiamo distruggendo la terra e magari il mondo non avrà neanche tanti anni di vita…”.
Penso allora che sia importante lottare nelle situazioni locali anche trasmettendo alla gente una visione più globale, rendendoli coscienti che i problemi che viviamo nel paese magari sono spesso interrelati a realtà molto più ampie e complesse. Spesso abbiamo denunciato lo sfruttamento delle risorse che hanno fomentato i conflitti in Sud Sudan ma la gente fa davvero fatica a aprire un dialogo su questo e tende a vedere le piccole problematiche che hanno fra di loro, senza percepire lo sfondo molto più ampio delle dinamiche mondiali.