La perdurante crisi politica in cui versa la Somalia non accenna a trovare soluzione. Da un lato, prosegue l’annosa controversia riguardante i diritti sulle acque territoriali nell’oceano Indiano, dove si è accertata la presenza di grandi giacimenti di petrolio e gas.
Il Kenya, infatti, ha rifiutato la decisione assunta il 12 ottobre dalla Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite a favore della Somalia, un rifiuto, quello del governo kenyano, motivato in precedenza dall’accusa rivolta al tribunale di ingerenza illecita e di non avere alcun diritto di giurisdizione in questa vicenda. Da notare, in positivo, che Somalia e Kenya nei mesi estivi avevano ripreso, almeno formalmente, le proprie relazioni diplomatiche, interrotte alla fine del 2020.
Scontro ai vertici
Sul fronte interno, la recente controversia che ha visto contrapporsi il presidente Mohamed Abdullahi Mohamed, detto “Farmajo” e il premier Mohamed Hussein Roble, incaricato di guidare il processo verso l’indizione di elezioni politiche già lungamente posticipate, rischia di provocare nuovamente un tale scompiglio che i terroristi di al-Shabaab, che ancora controllano gran parte del settore centro-meridionale del paese, potrebbero rialzare pienamente la testa.
Prova di ciò è l’intensificarsi di attacchi terroristici nella capitale. Gli ultimi sono avvenuti il 12 ottobre quando un attentatore suicida si è fatto esplodere in un ristorante nel distretto di Yaqshid, provocando tre morti e diversi feriti, mentre nel distretto di Daynile una mina antiuomo colpiva il veicolo di un ufficiale dei servizi segreti uccidendolo con le due guardie del corpo.
La disputa tra il presidente e il primo ministro è scoppiata a fine estate dopo che Roble aveva sospeso il capo dei servizi segreti (Nisa), Fahad Yasin, per aver mal gestito un’indagine di alto profilo sulla scomparsa, lo scorso giugno, di una giovane agente, analista per la sicurezza informatica, Ikran Tahlil Farah. Per il presidente sarebbe stata rapita e uccisa da al-Shabaab – che ha però smentito-, secondo altre fonti fatta sparire dai suoi stessi superiori o anche – secondo la madre – tuttora in vita e segregata in qualche località segreta.
In ogni caso, a metà settembre Farmajo aveva sostituito il nuovo capo del Nisa nominato da Roble con Yasin Abdullahi Mohamed, fino ad allora comandante delle operazioni dell’intelligence nella regione di Banadir (Mogadiscio e località circostanti), accusando Roble di aver prevaricato il potere di nominare o rimuovere funzionari governativi. Potere che, in base alla Costituzione per la transizione, acquisirebbe soltanto dopo il completamento del processo elettorale.
Farmajo aveva quindi nominato Fahad Yasin, l’uomo che Roble aveva licenziato, come suo consigliere personale per la sicurezza. La disputa si è protratta fino a metà settembre, quando il presidente ha sospeso il potere del primo ministro di assumere e licenziare funzionari.
Roble ha risposto bloccando la concessione di fondi dai conti del governo presso la banca centrale, tranne quelli da lui autorizzati, e nominando l’ex ministro delle finanze Abullahi Mohamed Nur (notoriamente critico nei confronti del presidente) nuovo ministro della sicurezza interna. Lo stesso giorno Farmajo dichiarava incostituzionali la destituzione del ministro e la nomina di uno nuovo.
Democrazia fragile
In realtà l’instabilità e la volatilità tuttora presenti in Somalia hanno radici decennali. Le condizioni di perdurante fragilità politica del paese, dovute alla sua storia controversa e alle pretese spesso contrapposte delle varie regioni che compongono la federazione somala, oltre naturalmente alla permanente attività terroristica di al-Shabaab, richiedono una leadership pragmatica che nemmeno Abdullaih Mohamed Farmajo ha saputo esercitare, scegliendo la strada della centralizzazione del potere, da quando lo assunse a inizio 2017, invece che la collaborazione con i tanti attori sulla scena politica.
Oltre alla Federazione del governo somalo (Fgs) e i vari gruppi di opposizione, molte sono tuttora le componenti presenti nello scenario politico del paese; a cominciare dall’anomala Somaliland, l’entità politica separatasi dalla Repubblica somala che dichiarò unilateralmente la propria indipendenza nel lontano 1960. Da allora, pur mai riconosciuta ufficialmente a livello internazionale, essa ha sviluppato le proprie istituzioni di governo organizzando regolari competizioni elettorali. E restando in perenne, a tratti molto accesa, contrapposizione con il governo centrale.
Peraltro, nonostante l’indipendenza di fatto, secondo la formula basata sulla rappresentanza etnica, conserva 57 seggi (il 17%) nel parlamento bicamerale somalo, designati in base ai diversi clan della regione. Il candidato che ottiene l’appoggio dei rappresentanti del Somaliland, in teoria ha tuttora buona probabilità di essere scelto come presidente della Somalia.
La Somalia è suddivisa in cinque Stati federali: Galmudug, Hirshabelle, Jubaland, Puntland e Sud Ovest. Pur essendo parte integrante della federazione somala e sotto l’autorità del governo centrale, ognuno di questi Stati possiede una propria costituzione ed elabora la propria agenda politica. E, così come il Somaliland, influisce grandemente sul processo organizzativo delle elezioni federali e sulla governance del paese. Ognuno ha visioni diverse riguardo al futuro della Somalia che porta ad agire spesso come Stati indipendenti.
Purtroppo Farmajo, divenuto presidente, insieme all’allora primo ministro Hassan Ali Kheyre, in quattro anni ha defenestrato molti rivali sia a livello ragionale che nazionale. Tra questi Mohamed Sheikh Osman Jawari, portavoce della camera dei deputati, e Ibrahim Idle Suleyman, giudice capo della Corte Suprema, rimpiazzando inoltre i presidenti di tre stati regionali – Sud Ovest, Hirshabelle e Galmudug – con suoi fedeli alleati.
Inoltre, il presidente ha gradualmente emarginato varie istituzioni con potere decisionale, dando potere a pochi individui suoi sostenitori. Un processo di centralizzazione che ha reso innocui e impotenti il Consiglio dei ministri, il parlamento e tutti gli altri organismi governativi. Ha poi risposto alle critiche espresse dalla comunità internazionale espellendo, nel gennaio 2019, il rappresentante speciale delle Nazioni Unite Nicholas Haysom che aveva obiettato in seguito all’uccisione extra-giudiziale di persone che avevano manifestato nello stato di Sud Ovest.
Infine Farmajo, scoperte le ambizioni di Kheyre stesso a soppiantarlo come presidente e in disaccordo circa la data delle elezioni, si liberò anche di lui con un voto di sfiducia da parte della camera dei deputati.
Mire centralizzatrici
Benché in Somalia pensare al suffragio universale nel voto sia tuttora un sogno lontano, va detto che a partire dalla costituzione della Terza Repubblica nel 2000, il paese ha condotto numerose elezioni indirette che hanno visto alternarsi ben cinque diversi presidenti. Dopo vari inutili tentativi di accordarsi sulla formazione di una seria commissione elettorale, Farmajo, allorché la fine del suo mandato – l’8 febbraio 2021 – si avvicinava, si fece prorogare il mandato per altri due anni, operazione interpretata naturalmente come una trappola per estendere illegalmente il proprio mandato.
Il presidente dovette allora fare veloce marcia indietro in seguito alle proteste armate, innescate dalle opposizioni ad aprile. Comunque questo gesto aveva contribuito ad approfondire le divisioni e benché molti somali auspicassero un maggiore controllo sulle politiche dei governi regionali, fu interpretato come un tentativo di centralizzare sempre più il proprio potere, zittire totalmente l’opposizione politica e stabilire un sistema dittatoriale.
Le divergenze inaspritesi in questi mesi, hanno causato l’ennesimo slittamento del processo, ancora in corso, per l’elezione del nuovo parlamento che avrebbe dovuto portare alla nomina del nuovo capo dello Stato il 10 ottobre scorso.
Farmajo, in definitiva, ha perciò tradito le attese dei somali di promuovere sicurezza, inclusione politica, riforma giuridica, sviluppo costituzionale e soprattutto creare un sistema elettorale funzionante. Non è realistico, pertanto, attendersi che, con un presidente alla ricerca di restare al comando ad ogni costo, possano essere organizzate elezioni trasparenti e credibili. Per tenere viva la fragile democrazia somala, i leader della federazione di governo, i partiti d’opposizione e i funzionari dei cinque Stati regione dovranno mostrarsi disponibili a qualche compromesso.
Solo attraverso l’apertura di un dialogo serio e l’introduzione di meccanismi ben studiati di condivisione del potere potrà rinforzarsi lo sviluppo democratico, garantendo al popolo somalo la sicurezza di cui sente la necessità. Solo un approccio pragmatico potrà insomma permettere di dare soluzione alla perdurante crisi del paese.