La scadenza del 25 febbraio è imminente. E pesa come un macigno sulla politica somala. Per quella data dovrebbe essere completata l’elezione di tutti i membri del parlamento, affidata ai delegati dei clan. I nuovi eletti dovranno poi nominare il capo dello stato. La data limite del 25 febbraio era stata fissata in base a un accordo faticosamente raggiunto il 9 gennaio scorso dal Consiglio consultivo nazionale (National Consultative Council) per uscire da una impasse, durata mesi, che ha visto ancora una volta contrapposti il presidente Mohamed Abdullahi detto Farmajo (il cui mandato è scaduto un anno fa) e il primo ministro Mohamed Hussein Roble. Attualmente però, solo la camera alta è al completo, mentre alla camera bassa (o camera del popolo) al 15 febbraio erano stati nominati solo 130 dei 275 componenti.
Un ritardo inaccettabile per le organizzazioni internazionali e i paesi donatori, preoccupati per il prolungarsi dello stallo politico – secondo la costituzione le elezioni avrebbero dovuto svolgersi entro dicembre 2020 – in un paese ancora estremamente fragile, sotto molti punti di vista.
Al-Shabaab si rafforza
In particolare per quanto riguarda la sicurezza, con al-Shabaab che ancora controlla, economicamente, militarmente e politicamente, ampie zone del territorio. E che nelle ultime settimane sta aumentando le azioni terroristiche, in particolare nella capitale Mogadiscio e nelle regioni di Banadir e Sud Ovest. Con obiettivi che non sono più solamente le forze di sicurezza, ma sempre più spesso funzionari, delegati e politici locali.
«Le divisioni politiche e i prolungati ritardi nelle elezioni hanno consentito alle forze ribelli di realizzare alcuni recenti passi avanti», ha affermato nei giorni scorsi il rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres e capo della missione Onu in Somalia (Unsom), James Swan, nel presentare il rapporto sulla situazione del paese al Consiglio di sicurezza.
E mentre al-Shabaab continua a essere la principale minaccia alla sicurezza, l’Unione africana sta anche monitorando una possibile rinascita dello Stato islamico, attivo con piccole cellule in particolare nel nord del paese.
Al-Shabaab è un nemico potente. Circa un quarto del suo budget annuale, stimato di 100 milioni di dollari, (24 milioni) viene speso per l’acquisto di armi, per lo più dallo Yemen, fa notare un recente rapporto del gruppo di ricerca Hiraal Institute.
Un fiume di denaro raccolto anche attraverso un sofisticato sistema di business leciti e illeciti ed estorsioni in vari settori, secondo un report del Gruppo di esperti Onu sulla Somalia del 2021. Il rapporto stima che al-Shabaab gestisca attualmente circa 100 posti di blocco in tutto il paese. Uno dei più redditizi è a nord del porto commerciale di Kismayo e frutterebbe tra i 15 e i 30mila dollari al giorno.
Giornalisti nel mirino
Ma la crisi, il prolungarsi del periodo elettorale e le mai sopite tensioni clanico-politiche pesano anche sui giornalisti locali, sempre più minacciati. E non solo, come sarebbe facile supporre, dal terrorismo estremista, ma anche, e soprattutto, dalle stesse forze di sicurezza. Aggressioni, arresti arbitrari, incursioni di polizia nelle sedi di emittenti e giornali sono cresciute durante questo infinito percorso elettorale, denunciano le organizzazioni della stampa somale e internazionali.
“Le autorità degli stati di Galmudug e Hirshabelle dovrebbero indagare e arrestare gli agenti di polizia che hanno aggredito e detenuto giornalisti, e dovrebbero garantire che il personale di sicurezza non rappresenti una minaccia per la libertà dei media”, ha affermato il Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj) in una nota.
Il riferimento è a due recenti episodi di violenza. Il primo avvenuto la sera del 24 gennaio, quando un gruppo di agenti di polizia della città di Beledweyne, nello stato di Hirshabelle, ha arrestato il giornalista di Radio Hiiraan Weyne, Abdullahi Ali Abukar, accusandolo di aver fatto trapelare filmati di un raid della polizia del 21 gennaio. Il reporter ha in seguito denunciato di essere stato detenuto per ore senza accuse, assieme ad altri sei colleghi, aggredito, minacciato e torturato.
L’altro fatto è avvenuto nel pomeriggio del 30 gennaio, quando gli agenti di polizia della città di Abudwak, nello stato di Galmudug, hanno fatto irruzione negli uffici privati di Sooyal Radio and Television, sequestrando attrezzature e arrestando il direttore della stazione, Mahad Bashiir Xilif.
Gli agenti sono stati identificati da Mahad e da gruppi locali per i diritti della stampa come membri delle forze Darwish, un’unità di polizia schierata a livello federale e statale, il cui mandato include la polizia di frontiera, la protezione delle infrastrutture governative e la lotta al terrorismo.
Ma il caso che ha fatto più scalpore riguarda un’altra squadra d’élite antiterrorismo della polizia, le Haram’ad forces, filmate mentre bendavano e legavano quattro giornalisti di tre emittenti televisive private – Five Tv, Somali Cable Tv e Dalsan Tv – che stavano seguendo un’operazione contro militanti di al-Shabaab.
I giornalisti stavano intervistando la gente del distretto di Kahda, a Mogadiscio, dopo un attacco di al-Shabaab, la notte del 15 febbraio, quando si sono imbattuti nella squadra dell’antiterrorismo, addestrata dalla Turchia. Le foto diffuse sui social media hanno mostrato i quattro giornalisti costretti a sdraiarsi a pancia in giù, bendati e con mani e gambe legate dietro la schiena.
L’incidente è avvenuto pochi giorni dopo che quattro membri di al-Shabaab sono stati condannati per aver ucciso il giornalista freelance Jamal Farah Adan.
Se già da anni la Somalia è considerata come il paese più pericoloso al mondo per i giornalisti (71 uccisi dal 1992 secondo il Cpj), ora la situazione per gli operatori dell’informazione è diventata, se possibile, ancora più difficile, favorita da un clima di sostanziale impunità. Un clima che ha allarmato anche il dipartimento di stato americano che il 9 febbraio ha annunciato restrizioni sui visti per i funzionari che hanno minato il processo democratico, inclusi “arresti ingiusti o intimidazioni di giornalisti”.
Finanziamenti a rischio
Ma c’è anche un altro aspetto sul quale le tensioni e la crisi politica somala avrà pesanti ripercussioni. Quello economico-finanziario. Un chiaro avvertimento è stato lanciato il 17 febbraio scorso dalla responsabile del Fondo monetario internazionale (Fmi) per la Somalia, Laura Jaramillo, che ha denunciato che il programma di finanziamento è a rischio di stallo.
«Se la revisione del programma in sospeso non viene completata entro il 17 maggio, ovvero entro 18 mesi dalla revisione precedente, il programma termina automaticamente», ha affermato. «Se il programma termina, metterà a repentaglio l’erogazione delle sovvenzioni di sostegno al bilancio, aprendo un divario di finanziamento che potrebbe comportare nuovi arretrati e far deragliare i tempi per la cancellazione totale del debito», ha aggiunto.
La Somalia, nel marzo 2020, è diventato il 37° paese a cui il Fmi ha concesso la riduzione del debito (Hipc Initiative). Ciò significava che il suo debito poteva essere ridotto da 5,2 miliardi di dollari alla fine del 2018 a 3,7 miliardi di dollari, con un’ulteriore riduzione a 557 milioni di dollari dopo tre anni. Ma per raggiungere questa fase, il Fmi ha chiesto una serie di riforme che consentirebbero anche di poter accedere a nuovi finanziamenti.
«Dati i progressi compiuti per finalizzare il processo elettorale, siamo fiduciosi che le elezioni si concluderanno in tempo per non pregiudicare il programma di riforma», ha rassicurato il ministro delle finanze, Abdirahman Beileh. C’è da augurarsi che abbia ragione, vista anche la terribile emergenza alimentare che la popolazione somala sta affrontando per la perdurante siccità.