Da febbraio è partita un’iniziativa che, fino a maggio, permetterà di scoprire le storie dietro la toponomastica coloniale che scandisce le mappe di molte città italiane. L’iniziativa – contestualmente a dibattiti e conferenze – è stata organizzata da Yekatit 12-19, una rete informale di collettivi e individui attivi da anni sulla questione del passato coloniale italiano, ma anche sui temi di immigrazione e razzismo. Già il nome, di questa realtà, ricorda una delle peggiori stragi commesse dalle forze occupanti italiane, nel febbraio 1937 in Etiopia.
La mobilitazione si iscrive in un processo di rilettura del passato coloniale italiano e dei suoi crimini che si sta facendo strada da alcuni anni, con determinazione ma fra diverse difficoltà. Il libro di Valeria Deplano e Alessandro Pes, entrambi professori di storia contemporanea all’Università di Cagliari, aiuta a comprendere perché questa evoluzione di dimostra così faticosa.
Il testo ricostruisce l’esperienza coloniale concentrandosi su Libia, Eritrea, Etiopia e Somalia e coprendo un lasso di tempo che trascende quello sotteso dall’effettiva dominazione coloniale (1882-1960) per arrivare fino ai giorni nostri. Emergono alcuni utili punti fissi: l’Italia repubblicana ha diviso in due il suo passato coloniale. C’è una fase “cattiva”, quella fascista, e un’altra fase, precedente, buona, quella liberale. È anche da questa scissione che provengono i problemi che si riscontrano oggi nell’affrontare quanto avvenuto in quegli anni.
Eppure gli elementi di continuità fra le due “epoche” sono diversi e costituiscono il Dna della nostra traiettoria coloniale. A partire dalla gerarchizzazione su base razziale che ha informato tutte le nostre politiche in quei territori occupati.