Il 9 luglio i sudsudanesi hanno ricordato il tredicesimo anniversario della loro indipendenza dal Sudan, ottenuta nel 2011 con un referendum popolare. Ricordato, non celebrato pubblicamente. Ormai da anni le condizioni politiche e quelle economiche del paese non consentono le cerimonie pubbliche, tra il tripudio della popolazione, organizzate nella piazza davanti al parco/mausoleo di John Garang, il “padre della patria”, il leader che ha guidato il movimento che ha portato alla liberazione del Sud Sudan.
Del resto, negli anni scorsi sono state cancellate anche le celebrazioni del 30 luglio, giorno dei caduti nella lotta di liberazione e festa dell’SPLM, il movimento che ha portato il paese all’indipendenza, da allora e tuttora forza di governo. Vedremo cosa succederà quest’anno.
Fino allo scoppio della guerra civile, nel dicembre del 2013, nel giorno dell’indipendenza Juba, la capitale, era di fatto bloccata dalla folla festante e divisa in due dalle parate che si svolgevano nella parte della città dove si trovano le sedi delle istituzioni: il parlamento, i ministeri, la sede del governo e la residenza ufficiale del presidente. Ora il 9 luglio è una festa nazionale che ognuno festeggia individualmente, con gli amici e i familiari o poco di più.
Diversi sono stati i contributi di riflessione su questo fatto. Sul sito di Radio Tamazuj, molto seguito nel paese, è stata postata un’analisi dal titolo We are too young as a nation to forget to celebrate Independence Day (Siamo troppo giovani come nazione per dimenticare di celebrare il giorno dell’indipendenza).
L’assunto sta tutto nel titolo e nella conclusione dell’articolo: “… il giorno dell’indipendenza dovrebbe essere celebrato nel paese più di altre occasioni, dal momento che costituisce un potente simbolo di libertà, unità e di identità nazionale”.
Dunque non celebrarlo allontana il raggiungimento di una coscienza dei valori che costituiscono le fondamenta di un paese. Una responsabilità non da poco, sembra dire, che non può essere sminuita da questioni di sicurezza e tanto meno da ragioni economiche.
Altri si sono interrogati sul significato della ricorrenza nell’attuale momento storico del paese. Il sito di Radio Tamazuj ha postato anche un contributo dal titolo South Sudan’s 13th independence anniversary: a moment of hope or despair? (13° anniversario dell’indipendenza del Sud Sudan: un momento di speranza o di disperazione?) scritto da uno studente del master in Scienze Politiche dell’Università di Juba.
Una sua opinione assolutamente personale, sottolinea il sito, ma con ogni probabilità indicativa delle discussioni tra la fascia delle persone più preparate, se non degli intellettuali, del paese. Chi scrive, pur riconoscendone i problemi, esprime la speranza che il paese possa presto affrontarli e risolverli in modo positivo.
Il reverendo Paul Benjamin Yugusuk, arcivescovo della provincia dell’Equatoria Centrale della Chiesa episcopale del Sud Sudan, in una lettera al governo e ai fedeli diffusa nell’occasione della ricorrenza, si chiede se è il caso di celebrare l’indipendenza nell’attuale contesto di conflitto (Is independence still worth celebrating in our context of conflict?).
E coglie l’occasione per ricordare alla leadership quali erano i valori che guidavano il sogno dell’indipendenza e gli obiettivi che i sudsudanesi si aspettavano di raggiungere con la liberazione del paese. Una chiamata, neppure troppo velata, ad un’assunzione di responsabilità per la difficile situazione in cui versa la nazione.
Certo è che quest’anno l’anniversario dell’indipendenza cade in un momento particolarmente delicato.
Miraggio elezioni
Le elezioni, già rimandate due volte, che dovrebbero chiudere il lungo periodo della guerra civile e riportare alla normalità della pace il dibattito politico e il governo del paese, si dovrebbero tenere il prossimo 22 dicembre.
Così ha deciso nei giorni scorsi il presidente della Commissione elettorale, organo fondamentale per l’organizzazione del voto, che da tempo è profondamente divisa per questioni apparentemente procedurali, che potrebbero mimetizzare però problemi di potere interno.
D’altra parte l’effettivo svolgimento delle elezioni continua a rimanere in dubbio. Tanto più che, proprio in occasione della ricorrenza dell’indipendenza, Riek Machar, primo vicepresidente del governo di transizione ora in carica e presidente del maggior partito di opposizione, l’SPLM-IO, ha dichiarato di non accettare la data stabilita.
Del resto aveva già espresso più volte la sua perplessità sull’opportunità di svolgere elezioni così importanti per il paese – le prime dall’indipendenza – senza un’adeguata preparazione e in una condizione di preoccupante insicurezza.
Nella sua dichiarazione, giustifica il rifiuto con il fatto che non sono ancora arrivati alla conclusione i dialoghi tra i diversi attori politici della scena sudsudanese e che non sono ancora finiti i negoziati, che si svolgono a Nairobi, con i movimenti di opposizione armata che non hanno firmato l’accordo di pace del settembre 2018 che guida attualmente la governance del paese.
Contesta inoltre l’approvazione di una legge sulla sicurezza molto restrittiva, definita come draconiana anche al tavolo negoziale di Nairobi. I gruppi che partecipano alle trattative hanno addirittura minacciato di non firmare nessun accordo fino a quando la legge, approvata dal parlamento, a loro parere intimidito dai servizi di sicurezza, non sarà ritirata e i servizi stessi riorganizzati nel quadro di riferimento di un governo civile.
Insomma, chi si chiede se ci sia qualcosa da festeggiare nel 13° anniversario dell’indipendenza non si pone una domanda del tutto oziosa.