Il Sud Sudan dovrebbe tenere a dicembre le sue prime elezioni dall’indipendenza dal Sudan, ottenuta nel luglio 2011. Ma il percorso ogni mese si fa più accidentato e aspro, con tensioni interne mai sopite che riemergono con crescente forza.
È il caso della nuova legge elettorale, contro cui si sono schierati tutti i partiti minori di opposizione denunciando un piano del governo per escluderli dal voto.
Il regolamento prevede infatti il versamento di una tassa di registrazione di 50mila dollari da parte delle formazioni politiche che intendono presentare un loro candidato.
Nel 2010, quando si votò per la prima volta nell’allora Sud Sudan semi-indipendente, la tassa era di soli 150 dollari. E l’attuale capo dello stato Salva Kiir, leader del Movimento di liberazione del popolo sudanese (SPLM), divenne presidente con il bulgaro consenso di quasi il 93%.
I successivi cinque anni di guerra civile, conclusa nel settembre 2018, impedirono che i sudsudanesi potessero tornare alle urne, mantenendo al potere un’élite militarizzata, cleptocratica e corrotta che ha ridotto il paese sul lastrico.
Le stime più recenti dell’Ufficio ONU per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) descrivono un paese in cui la maggior parte della popolazione vive in grave povertà e circa l’80% vive al di sotto della soglia di povertà assoluta. Con 8,9 milioni di persone necessitano di assistenza umanitaria.
Un quadro che fa ben comprendere perché la Coalizione dei partiti di opposizione abbia contestato l’esorbitante imposta di registrazione, chiedendone la revoca al Consiglio dei partiti politici del Sud Sudan.
Le stesse opposizioni denunciano inoltre il controllo del sistema giudiziario da parte del SPLM. Cosa che, evidentemente, garantirebbe il rigetto di eventuali contestazioni sull’esito del voto.
Ma non è questa l’unica questione che sta mettendo in allarme gli osservatori.
Il primo vicepresidente Riek Machar, leader del Movimento di liberazione del popolo sudanese in opposizione (SPLM-IO), afferma che il suo partito non parteciperà alle elezioni finché tutti i capitoli pendenti dell’accordo di pace non saranno pienamente attuati.
E non sono questioni secondarie, visto che riguardano tra l’altro il censimento della popolazione, il rientro di circa 2,3 milioni di rifugiati all’estero, la stesura di una nuova Costituzione e la completa unificazione delle forze armate, compresi i gruppi armati non firmatari dell’accordo di pace. Ma anche il reperimento del denaro necessario per metter in moto l’intera macchina elettorale.
In realtà appare chiaro che nessuno dei due principali partiti è favorevole allo svolgimento delle elezioni nei tempi previsti. Con l’SPLM-IO che ha chiesto un nuovo rinvio del voto e l’SPLM che propone invece elezioni parziali a dicembre, presidenziali e governative, con il rinvio delle legislative.
Insomma, discussioni e tensioni simili a quelle che hanno portato alla proroga delle elezioni già nel 2015, 2018 e 2022. E che rischiano di riaccendere il conflitto tra le due fazioni etnico-politico-militari che da oltre un decennio vampirizzano il paese.