Negli scorsi mesi, in un paese devastato da alluvioni sempre più estese e prolungate, politici, attivisti della società civile, intellettuali, ambientalisti e scienziati sudsudanesi sono stati impegnati a dibattere aspramente su provvedimenti governativi legati alla gestione del territorio e delle risorse idriche superficiali.
Provvedimenti giudicati dalla maggioranza non solo inidonei ad affrontare una situazione drammatica, ma pericolosi per l’ambiente e le fonti di sussistenza di milioni di persone.
Una la proposta governativa maggiormente dibattuta. Proposta che si divide in due fasi. Il dragaggio di alcuni fiumi del bacino del Bahr al-Ghazal, per allargarne e approfondirne il letto, in modo che possano contenere una maggior quantità di acqua da dirigere verso il Nilo Bianco, di cui il Bahr al-Ghazal è un affluente.
Sono ripresi i lavori per il completamento del canale di Jonglei. Un progetto, risalente ai tempi della colonizzazione, che prevede di portare l’acqua del Nilo Bianco verso nord, impedendo che si disperda nel Sudd, la zona umida che occupa una vastissima regione del Sud Sudan settentrionale. Ma, di fatto, la prosciugherebbe.
La zona, protetta dalla convezione di Ramsar del 1971, è custode di un patrimonio inestimabile di biodiversità. Vi vivono milioni di animali selvatici, comprese diverse specie protette, e vi pascolano le sterminate mandrie dei denka e dei nuer, i più importanti gruppi etnici del paese in perenne conflitto per il controllo delle risorse del territorio e la cui identità ed economia sono ancor oggi basate sull’allevamento brado.
La proposta di Taban Deng Gai
La proposta è stata avanzata all’inizio dello scorso febbraio da Taban Deng Gai, uno dei vicepresidenti del paese, incaricato di sovrintendere al settore delle infrastrutture, e sostenuta da Riek Machar, primo vicepresidente e capo della maggior forza di opposizione, il Splm-Io, e appoggiata, in modo più o meno pubblico e convinto, dalla gran parte della leadership del paese. Tra i pochi contrari, la ministra dell’ambiente e delle risorse forestali, Josephine Napwon.
Il progetto sarebbe parte di un accordo tra il governo egiziano e quello sudsudanese, firmato nell’aprile dell’anno scorso al Cairo. L’intesa sarebbe il frutto di un’iniziativa diplomatica egiziana tra i paesi del bacino del Nilo per assicurasi risorse idriche aggiuntive, allo scopo di bilanciare le eventuali perdite dovute all’entrata in funzione della Gerd, la grande diga per la rinascita etiopica, costruita sul Nilo Azzurro.
I lavori programmati in Sud Sudan permetterebbero, infatti, di incanalare verso nord 4,8 milioni di metri cubi d’acqua all’anno in aggiunta alla normale portata del Nilo Bianco.
Il Cairo esulterebbe
In Egitto ne arriverebbero dal 5% al 7% in più rispetto all’attuale quantità annua. Le pressioni sul governo sudsudanese per la gestione delle acque del Nilo sul suo territorio, iniziate fin dal momento dell’indipendenza, si sarebbero fatte particolarmente pressanti a causa del mancato accordo con Addis Abeba per i tempi di riempimento del bacino formato dallo sbarramento e per il flusso delle acque da garantire a valle dello stesso.
Le richieste egiziane avrebbero trovato le autorità sudsudanesi, da tempo accusate di cleptocrazia, interessate, stante anche la situazione ambientale che avrebbe potuto giustificare interventi per la gestione e il controllo delle acque superficiali.
A Juba la proposta governativa ha suscitato, però, la dura opposizione della maggior parte degli esperti, delle forze attive competenti e dei gruppi sociali interessati, per i quali era chiarissimo che l’accordo prevedeva di “regalare” ad altri una risorsa strategica per lo sviluppo del paese, per di più devastando ecosistemi che garantiscono la sopravvivenza di milioni di cittadini sudsudanesi.
In cambio di che cosa? Macchinari per il dragaggio, formazione di tecnici, perforazione di qualche pozzo e ben poco altro, almeno alla luce del sole.
Ricorso alla Corte di giustizia
Le iniziative di dibattito e contrasto sono state diverse e autorevoli.
In giugno un gruppo di avvocati ha presentato il caso alla Corte di giustizia dell’Africa orientale, ad Arusha, in Tanzania, in quanto l’intervento mette a rischio aree protette da trattati internazionali.
In luglio l’università di Juba ha organizzato un forum pubblico con la partecipazione di numerosi esperti e accademici, dai cui interventi sono emersi i numerosi problemi delle proposte governative.
Tra i più condivisi, i pericoli ambientali del dragaggio che distrugge l’ecosistema dei corsi d’acqua e in particolare l’habitat delle risorse ittiche, alla base dell’economia delle popolazioni rivierasche.
Ma anche il pericolo di alluvioni ancor più devastanti, a causa dell’aumento della portata e della velocità dell’acqua nei fiumi. E poi la siccità, dovuta al drenaggio del Sudd e alla minore evaporazione delle acque superficiali e, dunque, all’impoverimento del ciclo della pioggia.
Sono emerse anche soluzioni alternative, già proposte in passato da esperti di gestione del territorio, quali gli argini per contenere le esondazioni e la formazione di bacini artificiali per la conservazione dell’acqua da usare per lo sviluppo agricolo e come riserva per i periodi di siccità.
La mobilitazione massiccia ha finito per convincere il presidente, Salva Kiir, a bloccare il progetto in attesa del parere di una commissione di esperti nominata allo scopo. Ma si può star certi che i convergenti interessi dell’Egitto e della leadership sudsudanese porteranno ancora il canale di Jongei all’attenzione dell’opinione pubblica interna ed internazionale.
La storia di Jonglei
Il canale è stato progettato dall’ingegnere britannico sir William Garstin all’inizio del secolo scorso, quando il Sudan era una colonia angloegiziana. Si propone di impedire che l’acqua di un ramo del Nilo Bianco si disperda ed evapori nel Sudd, la zona umida più vasta dell’Africa, la cui estensione media è di 57mila km² con grandi variazioni stagionali e annuali causate dal regime delle piogge.
Il canale, lungo 360 km, avrebbe permesso all’acqua del Nilo Bianco di continuare la sua corsa verso nord senza “sprechi”.
Il progetto era particolarmente interessante per l’Egitto che avrebbe potuto disporre dell’acqua necessaria per irrigare 2 milioni di acri di terreno altrimenti improduttivo. Era, ed è, un’opera strategica per lo sviluppo del paese e per la sicurezza alimentare della sua popolazione – stimata ormai a più di 106 milioni di persone – stanziata per il 95% in una stretta fascia di territorio lungo il corso del Nilo e nel suo Delta.
La costruzione del canale iniziò nel 1978 e si interruppe nel 1984, quando ne erano già stati scavati 240 km. Fu bloccata dalle azioni di sabotaggio del Splm, il movimento che stava combattendo la guerra civile per la liberazione del Sud Sudan e che ora è al governo.
L’Egitto rispolverò il progetto nel 2005, alla fine della guerra civile. Ma solo dopo l’indipendenza del Sud Sudan, nel 2011, il Cairo trovò nel governo di Juba un interlocutore sensibile alle sue pressioni.
(Articolo pubblicato sul numero di ottobre di Nigrizia)