Quali sono le condizioni per la sopravvivenza del Sud Sudan? Se lo chiede il rapporto Toward a viable future for South Sudan (Verso un futuro possible per il Sud Sudan), pubblicato nei giorni scorsi dall’International Crisis Group.
L’analisi parte dalla descrizione della situazione attuale, considerata come decisamente preoccupante. L’accordo di pace firmato nel settembre del 2018 è stato realizzato nei punti fondamentali solo a partire dal novembre del 2019, con la formazione del governo di unità nazionale, ma è ben lontano dall’essere consolidato. Sono quotidiane le tensioni tra le fazioni che si sono combattute dal dicembre del 2013 e che ora siedono nel governo transitorio.
Le relazioni sono ancora influenzate dai postumi della durissima guerra civile che ha provocato circa 400.000 morti e la fuga di oltre un terzo della popolazione che ha cercato rifugio in campi profughi sia all’interno del paese che all’esterno, nei paesi confinanti. Il ritorno ai villaggi d’origine è lentissimo, frenato dalle condizioni economiche di un paese razziato dalla classe dirigente, devastato dal conflitto, sempre sull’orlo di una catastrofica crisi alimentare, ma soprattutto dalla mancanza di fiducia che la crisi sia ormai risolta.
L’accordo di pace, infatti, è tutt’altro che globale. Sono numerosi i movimenti armati che non l’hanno firmato e ancora agiscono in diverse zone del paese – non sono serviti a convincerli neppure i negoziati facilitati a Roma dalla Comunità di sant’Egidio, sotto l’egida del Vaticano -. Particolarmente preoccupante è la situazione nella regione dell’Equatoria dove si trova la capitale, Juba, in cui l’instabilità è ancora molto grave e diffusa.
Sono pessimisti gli stessi leader dei paesi vicini, e in particolare quelli membri dell’Igad, l’organizzazione regionale che ha condotto i negoziati tra le parti belligeranti. Il rapporto dice che “Privatamente esprimono ben poco ottimismo … per il futuro del Sud Sudan”. Lo stesso vale per i maggiori donatori che hanno sostenuto la causa della sua indipendenza e ora pagano l’enorme conto della permanente crisi umanitaria, se non “il costo finale del suo fallimento”.
Sono molto gravi in particolare le preoccupazioni relative alle elezioni, previste per il 2022, sempre che l’accordo ora in vigore resista fino a quel momento. Le elezioni dovrebbero chiudere la crisi apertasi nel 2013 con l’insediamento di istituzioni democraticamente elette. Ma molti, anche sud sudanesi, temono che diventino occasione per lo scoppio di un’altra guerra civile.
Secondo il rapporto, l’entusiasmo per il raggiungimento della a lungo agognata indipendenza, 10 anni or sono, ha messo in ombra le evidenti e profonde divisioni tra i diversi gruppi etnici che esprimevano, e ancora esprimono, l’élite politica sud sudanese.
Il maggior problema starebbe dunque nella governance del paese che ora è una repubblica presidenziale dove “chi vince prende tutto” (the winner take all stakes). Questo sistema alimenta costanti tensioni nella classe dirigente, già condizionata da decenni di conflitti sanguinosi.
I sud sudanesi ne sono del tutto consapevoli. Molte comunità, leader religiosi e dell’opposizione armata, funzionari governativi e gruppi della società civile sentiti per la scrittura del rapporto hanno detto di credere che la soluzione alla crisi stia in una maggior autonomia e rappresentanza politica delle diverse etnie e regioni.
E, in effetti, un nuovo sistema basato su un potere condiviso e decentrato potrebbe essere uno strumento efficace per risolvere la perenne crisi sud sudanese e mettere il paese sulla strada di un futuro sostenibile. Ma il problema sono le élite politiche attuali, sempre tenacemente aggrappate al proprio ruolo, nonostante abbiano ormai perso credibilità presso vasti settori della popolazione che ormai li vedono come “imprenditori di guerra piuttosto che uomini di stato”.
Perciò, per evitare un altro conflitto, la società civile del paese, i donatori e la comunità internazionale devono fare pressione sulla leadership perché concordi su un modello di governance che preveda un’ampia divisione del potere. È inoltre necessario un accordo di pace davvero globale che comprenda anche i gruppi che finora non hanno firmato quello vigente.
E soprattutto bisogna evitare di spingere il paese alle urne se non sono stati raggiunti i due obiettivi descritti, prerequisiti indispensabili per elezioni credibili che avviino il paese verso un futuro migliore.