Il 5 settembre scorso è cominciato a Stoccolma, in Svezia, un processo giudicato storico dal sito Justicenet, della fondazione svizzera Hirondelle. Lo è innanzitutto per gli accusati: Alex Schneiter e Ian Lundin, rispettivamente ex direttore ed ex presidente della multinazionale petrolifera svedese Lundin.
E anche per le accuse: complicità con l’esercito sudanese e milizie locali sue alleate in crimini di guerra perpetrati dal 1997 al 2003 allo scopo di sfruttare risorse petrolifere nel nord di quello che è adesso il Sud Sudan.
Era uno dei momenti più drammatici della guerra civile tra il governo di Khartoum e il Sud del paese quando furono scoperti interessanti giacimenti di petrolio che, disgraziatamente, si trovavano sulla linea del fronte del conflitto tra l’esercito regolare e le forze del movimento di liberazione (SPLA).
Secondo le accuse, la Lundin ebbe un contratto governativo per la ricerca e lo sfruttamento dei giacimenti in una vasta area – il Blocco 5A – che l’esercito mise a ferro e fuoco in modo da “creare le condizioni necessarie per estrarre il greggio”, si legge nelle carte del processo.
Per quattro anni, fino a quando la Lundin non chiuse le attività nella zona, l’esercito attaccò indiscriminatamente le comunità locali per costringerle ad abbandonare i luoghi di insediamento, allo scopo di controllare saldamente il territorio facendo terra bruciata per il movimento di liberazione attorno ai campi petroliferi.
A causa degli attacchi – bombardamenti, spari su civili da elicotteri da combattimento, incendio dei villaggi e dei raccolti – almeno 12mila persone persero la vita e 160mila vennero cacciate dalla zona con la violenza.
Altre compagnie, pure interessate ai giacimenti sudanesi, si ritirarono dal terreno prima di iniziare le prospezioni che ripresero a guerra civile finita.
Le prove dei crimini perpetrati contro i civili nel Blocco 5A furono raccolte da Pax Christi International (ora PAX) organizzazione leader di una coalizione di gruppi della società civile europea, la European Coalition on Oil in Sudan (ECOS), di cui faceva parte anche la Campagna italiana per il Sudan.
Nigrizia ne era un membro attivo. Le testimonianze furono raccolte nel rapporto Unpaid Debt (Debito non pagato) che costituì la base per l’istruzione del processo, che aveva come obiettivo principale il risarcimento delle vittime.
Ma ben difficilmente questo obiettivo sarà raggiunto. Il 26 novembre il tribunale di Stoccolma ha deciso di scindere la causa penale, quella per la complicità nei crimini di guerra, da quella civile, per il risarcimento. Si prospetta addirittura l’eventualità che ogni richiesta di risarcimento – ne sono state presentate 27 – sia giudicata in un procedimento diverso.
Normalmente le cause penali in cui è richiesto anche un risarcimento sono trattate contestualmente, per abbattere le spese processuali. Ѐ però facoltà della Corte di dividere i due procedimenti, se ritiene di avere fondate ragioni. In questo caso, probabilmente, la decisione è dovuta alla complessità del caso, al numero dei capi d’accusa e dei querelanti.
Sta di fatto, però, che in questo modo sarà molto difficile per le vittime ottenere il giusto risarcimento. Ebony Wade, consulente legale di Civil Rights Defenders dice anzi che in questo caso sarà praticamente impossibile. I querelanti sudsudanesi rischiano di dover pagare i costi processuali, ovviamente altissimi, per Ian Lundin e Alexandre Schneiter se la loro richiesta fosse respinta.
Inoltre ognuno di loro, in quanto cittadino non europeo, dovrebbe depositare 500mila corone svedesi (pari a poco meno di 45mila euro) come cauzione perché il caso venga preso in carico e il processo istituito. Un costo che nessun sudsudanese, per di più proveniente da una zona rurale remota, può sostenere.
Insomma, con la legittima decisione del tribunale di Stoccolma del 26 novembre, ingiustizia è fatta.