Il 9 luglio segna il decimo anniversario dell’indipendenza del Sud Sudan. Degli 11 milioni e 685 mila sud sudanesi, circa 4 milioni e mezzo lo ricorderanno lontani da casa. In parte sono sfollati in altre zone del Paese; in centinaia di migliaia si trovano ancora nei campi per la protezione dei civili, difesi dalla missione di pace Unmiss. 2milioni e 273mila vivono in affollati campi profughi nei paesi confinanti.
Lo scorso 30 giugno l’Unhcr ne contava 921mila in Uganda, poco meno di 793mila in Sudan, quasi 373 in Etiopia, poco meno di 130mila in Kenya e addirittura circa 56mila nella Repubblica democratica del Congo, a sua volta uno dei paesi più instabili e pericolosi del continente.
A 7 anni e mezzo dallo scoppio della guerra civile, il 15 dicembre 2013, e a quasi 3 anni dalla firma di un traballante accordo di pace, la situazione in Sud Sudan è ancora considerata con grande preoccupazione dalle organizzazioni internazionali. Secondo un indice di rischio valutato su cinque livelli, la gravità della crisi del Paese è giudicata a 4,3 e le condizioni umanitarie a 4,5 cioè vicinissime al massimo grado.
Se poi si osservano i grafici relativi al numero dei rifugiati, si vede come sia progressivamente aumentato fino al 2018, per poi rimanere costante fino ad oggi. Ѐ un indice molto significativo della sfiducia nella possibilità che il paese possa offrire sicurezza e opportunità migliori di quelle, sempre precarie, di un campo profughi.
Lo confermano gli incontri con numerosi sudsudanesi che vivono nel campo di Kakuma, nel nord-ovest del Kenya, organizzato nel 1992 per far fronte ad una prima ondata di arrivi, ai tempi della guerra civile tra il Sudan meridionale, diventato poi indipendente con il nome di Sud Sudan, e il governo di Khartoum. Ve ne sono ospitati ancora 116mila, ma gli arrivi sono giornalieri, nonostante il fatto che il governo del Kenya abbia per ora sospeso l’ingresso al campo, che vorrebbe chiudere nell’arco di un paio d’anni.
Molti sud sudanesi sono arrivati a Kakuma bambini. Ora sono uomini adulti con famiglia e figli che non conoscono altra realtà che quella di un campo profughi in un paese straniero e con la forte sensazione di non avere la propria vita nelle proprie mani.
Awan è arrivato a Kakuma ragazzino nel 2002, da un villaggio dello stato di Jonglei devastato da continui attacchi delle milizie alleate all’esercito di Khartoum. Al campo si è sposato, ha avuto figli e ha potuto studiare fino alla laurea. Ma la sua condizione, dice, è senza sbocchi. Secondo la legge keniana non può lavorare e dunque non può avere uno stipendio.
Può solo ricevere incentivi anche se svolge lavori di responsabilità per organizzazioni che gestiscono i servizi all’interno del campo, grande come una città di medie dimensioni. Questo non gli permette neppure di sognare un futuro migliore. Sarà per sempre dipendente dalla solidarietà internazionale, per altro costantemente in diminuzione negli ultimi anni. La situazione è decisamente frustrante per lui e per tanti altri sud sudanesi, tanto che la depressione tra di loro è molto diffusa.
Gabriel è il leader di un blocco, una parte del campo che potremmo paragonare al quartiere di una città. Nel suo blocco risiedono in grande maggioranza sud sudanesi di etnia denka. Gabriel è la persona di riferimento per l’erogazione dei servizi ad alcune migliaia di persone. Un ruolo importante nella governance del campo.
Anche lui è arrivato a Kakuma da Jonglei quando era ragazzino, nel 2004. Si è laureato in economia e statistica, e ora sta aspettando di essere ammesso ad un master. Non ha peli sulla lingua quando parla della situazione del suo paese. «Qui non celebreremo il decimo anniversario dell’indipendenza. Non c’è niente da celebrare. Non abbiamo visto nulla di positivo dopo l’indipendenza e ancora adesso il percorso di pace è troppo lento per avere qualche speranza che possa consolidarsi».
Parla tra un gruppo di giovani che annuiscono. E lo fanno anche quando esprime preoccupazione per la propria incolumità. Dice di temere che i servizi di intelligence del suo Paese possano rapirlo e riportarlo in Sud Sudan con la forza. E potrebbe anche non essere un discorso frutto di paranoie senza fondamento. Ѐ già successo a diversi leader comunitari e difensori dei diritti umani rifugiati in Kenya. Un paio sono stati fatti sparire anni fa. Altri hanno passato lunghi anni in carcere.
La disillusione è ribadita da Mawud, anche lui proveniente da Jonglei. Sottolinea che tutte le aspettative che c’erano prima dell’indipendenza sono state distrutte insieme alle loro speranze. Il discorso con lui si fa complesso. Che tipo di legittimità ha una leadership che ha portato il Paese sull’orlo del baratro e che rappresenta solo se stessa? Che significa sovranità in un Paese in cui la leadership non è legittima? Qual è il ruolo dell’Onu in una simile situazione?
In Sud Sudan non sta facendo nulla per risolvere davvero la crisi; non si vede nessun piano onesto e credibile della comunità internazionale. Si sente che ha letto molto sul dibattito riguardo a questi temi spinosi su cui da decenni si confrontano difensori dei diritti umani, esperti di diritto internazionale e politici di ogni orientamento.
Abraham pone invece il problema dei negoziati di pace, in cui i rifugiati non hanno mai potuto far sentire la loro voce. Viene dallo stato dei Laghi ed è tra i leader di un gruppo di giovani che si è organizzato nel 2016, all’indomani degli scontri tra governo e opposizione a Juba, che hanno dato inizio della seconda fase della guerra civile che ha devastato il paese. Ci tiene a far sapere che l’associazione è interetnica e cerca di mediare le tensioni che non raramente caratterizzano le relazioni tra i differenti gruppi anche nel campo di Kakuma.
Mabior, pure originario dello stato di Lakes, ci racconta del suo viaggio di ritorno a casa, dopo l’indipendenza, solo per ritrovarsi piombato in un’altra guerra civile che lo ha costretto a scappare di nuovo. Ci dice dell’insicurezza delle strade e del pericolo rappresentato dal numero impressionante di gente armata che vi si incontra. Conclude dicendo di non aver nessuna aspettativa per il futuro in Paese dove tutte le 64 tribù competono per avere il presidente.
Ѐ un coro unanime di giovani uomini denka, l’etnia maggioritaria, quella cui appartiene anche il presidente del Sud Sudan, frustrati e disillusi. Ma non sono diverse le testimonianze e lo stato d’animo dei giovani uomini nuer – il gruppo etnico da cui proviene il vicepresidente e capo dell’opposizione – che vivono in un altro blocco dello sterminato campo.
Nessuno si fida più della volontà di pace dell’attuale leadership. Sono sempre più preoccupati per il proprio futuro e per quello del paese. Hanno perso le speranze e non hanno nessuna intenzione di ritornare a casa. Si augurano che le opportunità di andare a scuola fino all’università offerta dallo stato di rifugiato in Kenya contribuisca a formare una nuova leadership, che emergerà forse dai loro figli.
E le donne? Generalmente non parlano inglese, essendo molto meno scolarizzate. La maggior parte se ne sta sullo sfondo portando sulle spalle esperienze devastanti che raccontano con molto pudore e solo se interpellate, usando l’unica lingua che conoscono, la loro lingua materna. Il filtro della traduzione affidata a un uomo in un gruppo numeroso e misto le mette a disagio.
Parlano di figli perduti durante la fuga, di bambini nati disabili per la fame e le fatiche del viaggio, di villaggi dati alle fiamme con i loro abitanti. Difficilmente alzano gli occhi da terra. La loro voce è flebile e le parole sono pronunciate con tono dimesso. Ma anche questo offre uno spaccato chiaro della situazione del Paese che, a dieci anni dalla nascita, insieme ad una profonda crisi politica, deve affrontare un’altrettanto difficile situazione sociale.