Un breve video registrato nel deserto sudanese, vicino alla frontiera con Libia, potrebbe aver contribuito a svelare un’altra triste verità sulla guerra in corso nel paese da ormai oltre 18 mesi.
Nel filmato vengono mostrati documenti appartenenti a Christian Lombana Moncayo, un ex militare colombiano, insieme ai passaporti e le carte d’identità di altre persone provenienti dal paese sudamericano.
Sono tutte persone queste, che sono state recentemente uccise dalla Forza congiunta dei movimenti armati del Darfur, una milizia che sostiene il governo e opera in coordinamento con l’esercito nazionale del Sudan, una delle due fazioni principali che animano il conflitto.
Sono gli stessi miliziani ad aver registrato il video: «I passaporti sono tutti di mercenari colombiani!», ha denunciato Yasin Ahmed, blogger sudanese che ha commentato il filmato.
Questa scoperta non solo ha confermato la presenza di colombiani nel conflitto, ma ha anche ha rivelato il funzionamento di una rete di reclutamento che, sotto false promesse, ha portato 300 colombiani in Sudan.
Secondo quanto ricostruito dal portale di notizie colombiano La Silla Vacía, almeno 40 di loro hanno denunciato di essere stati praticamente sequestrati. «Qui la situazione è brutta, siamo prigionieri», ha dichiarato uno di loro in un audio inviato dal luogo.
Il contesto
La guerra in Sudan è iniziata in aprile 2023 e vede confrontarsi principalmente l’esercito nazionale e la potente milizia delle Rapid Support Forces (RSF). Le stime di almeno due diversi studi indicano che le vittime del conflitto potrebbero essere non meno di 61mila. Questo bilancio è comunque ritenuto conservativo o molto conservativo.
La guerra ha poi costretto alla fuga dalle loro case o dal paese fra le 11,5 e le 13,5 milioni di persone a seconda delle fonti, oltre a provocare una crisi umanitaria senza precedenti, con 8,5 milioni di persone che affrontano una fame estrema.
In questo contesto, gli ex militari colombiani sono stati integrati nel conflitto, lavorando di fatto per le RSF ma appunto contro la loro volontà, almeno secondo quanto riferito dalla stampa colombiana.
I primi gruppi di ex militari sono partiti dalla Colombia verso la regione sudanese del Darfur, facendo prima tappa a Bengasi, in Libia, a settembre 2023. Per quanto questo aspetto non sia menzionato negli articoli sul tema, è utile ricordare che Bengasi è il quartier generale del generale Khalifa Haftar, uomo forte della Libia orientale descritto come sostenitore delle RSF in diverse ricostruzioni giornalistiche.
Da lì, accompagnati dai sudanesi delle RSF, i contractor colombiani avrebbero attraversato il deserto per otto giorni. I racconti fatti dai cittadini sudamericani hanno un punto in comune: il reclutamento da parte dell’azienda colombiana conosciuta come International Services Agency A4SI.
Questa impresa avrebbe un lavoro per proteggere infrastrutture petrolifere negli Emirati Arabi Uniti con paghe compresi tra 2.600 e 3.400 dollari al mese. Ai protagonisti colombiani di questa vicenda sarebbe stato chiesto di fornire un curriculum vitae e firmare una clausola di riservatezza con la società emiratina Global Security Services Group.
Secondo la descrizione che campeggia sul loro sito web, questa azienda è «la prima compagnia di sicurezza privata degli Emirati a cui è stata concessa una licenza per la sicurezza armata». Ai mercenari colombiani sarebbe poi stato chiesto di aprire conti bancari presso la North International Bank, banca con sede ad Antigua e Barbuda, un istituto catalogato come “paradiso fiscale”.
Una volta firmati i documenti, questi sono stati infine inviati in Sudan, dove si sarebbero però trovati ad affrontare una realtà completamente diversa da quella promessa.
Intrigo
Secondo La Silla Vacia, a capo di questa operazione ci sarebbe Álvaro Quijano, un colonnello dell’esercito colombiano in pensione, residente a Dubai. Le testimonianze indicano l’ex militare come il principale responsabile del reclutamento, questo nonostante il suo nome non appaia negli atti consultati presso la Camera di commercio di Bogotá.
A figurare è invece quello di Claudia Viviana Oliveros, indicata come attuale rappresentante legale di International Services Agency A4SI. La donna, stando alle ricostruzioni, sarebbe però legata a Quijano da una relazione sentimentale.
Il ruolo degli Emirati è un tassello fondamentale di questo mosaico. Il paese è stato accusato di sostenere le RSF, anche in violazione di un embargo internazionale sulle armi destinate al Sudan, regione in cui la milizia è molto attiva. Si sa della presenza dai soldati emiratini nelle porzioni di territorio sudanese controllate dai paramilitari.
A settembre il ministero della Difesa di Abu Dhabi ha riconosciuto la morte di quattro suoi soldati in un bombardamento contro un aeroporto controllato dai paramilitari nell’ovest del paese. Gli esperti sottolineano che gli Emirati utilizzino alleanze con gruppi paramilitari per estendere la propria influenza in regioni strategiche come il Sudan.
La situazione degli ex militari colombiani in Sudan non è un caso isolato. I mercenari sono stati una costante nella storia recente della Colombia. Nel 2021, ex militari colombiani sono stati coinvolti nell’assassinio dell’allora presidente di Haiti, Jovenel Moïse.
Colombiani sono stati reclutati anche per combattere nei conflitti in Ucraina e in Medio Oriente. Questo fenomeno viene alimentato dalla mancanza di opportunità lavorative e dall’assenza di politiche di reintegrazione per i militari in pensione.
La posizione del presidente Petro
«La Colombia non può continuare a essere una fonte di personale per le guerra. Niente per la guerra, tutto per la pace», ha dichiarato ieri presidente colombiano Gustavo Petro. Il capo di stato ha chiesto al ministero degli affari esteri di avviare le procedure necessarie per rimpatriare i 300 connazionali.
Per i colombiani intrappolati, la speranza di tornare a casa svanisce con ogni giorno che passa. La sfida ora è garantire che queste storie non si ripetano e che il paese smetta di essere un vivaio di personale per i conflitti in giro per il mondo.
«Voglio tornare, ma qui non possiamo fare nulla. Spero che non ci accada niente. Prego Dio che ci tiri fuori da qui», ha confessato uno dei 300. Molti temono rappresaglie se provano a tornare e descrivono la loro situazione come una forma di tratta di esseri umani.
Ma la Colombia non dispone di un quadro giuridico che proibisca le attività dei mercenari…