La situazione in Sudan è in quotidiano peggioramento.
Dopo due mesi e mezzo dallo scoppio del conflitto tra l’esercito regolare (Saf) e i miliziani delle Forze di intervento rapido (Rsf), fino ad allora alleati nella giunta militare che governava il paese, la crisi sta velocemente raggiungendo la gravità temuta dai conoscitori del paese e descritta dal segretario generale dell’Onu come potenzialmente catastrofica.
I combattimenti, dapprima concentrati nella capitale, Khartoum, si sono immediatamente estesi al Darfur e ora interessano diverse altre regioni.
È sotto assedio el-Obeid, capitale del Nord Kordofan e città strategica per le rotte commerciali interne. Vi scarseggiano ormai cibo, acqua e carburante, con un impatto terribile sulla popolazione intrappolata. Ma anche sul rifornimento dei mercati nel resto del paese.
Nel Sud Kordofan – dove è ancora attiva la fazione dell’ Splm-Nord guidata da Abdel Aziz al Hilu – si sono riaccesi i combattimenti con il nemico di sempre, l’esercito regolare. Apparentemente il conflitto è risorto per proteggere la fuga di migliaia di persone che cercano rifugio nei Monti Nuba, la zona controllata dal movimento. Il quale, tuttavia, ha colto l’occasione per provare a estendere il proprio territorio.
Il quadro è ancor più complesso nello stato del Nilo Azzurro, dove non sono mai cessate le scaramucce tra le due fazioni dell’Splm-Nord: quella guidata da Malik Aggar – ora vicepresidente del Consiglio sovrano, la maggiore istituzione sudanese – e quella capeggiata da Abdelaziz al-Hilu. Nelle ultime settimane il quadro si è di molto aggravato, tanto che migliaia di persone hanno ripreso la via dei campi profughi della limitrofa Etiopia, da cui erano tornati dopo la caduta del regime islamista del Partito del congresso nazionale (Ncp), guidato dal deposto presidente Omar El-Bashir, nell’aprile del 2019.
Catastrofe Darfur
Intanto in Darfur, come era prevedibile, i combattimenti hanno assunto i connotati etnici che avevano già caratterizzato il conflitto nella regione nel primo decennio di questo secolo. In queste settimane le Rsf hanno attaccato in modo particolare il gruppo dei Masalit, agricoltori stanziati nel Darfur occidentale, mettendo a ferro e fuoco la capitale, Geneina, uccidendo il governatore e numerosi altri leader comunitari e tribali, insieme a migliaia di normali cittadini, tra cui numerosi bambini. I racconti del massacro hanno evocato il genocidio dei tutsi in Rwanda, nel 1994.
Dal Darfur occidentale i combattimenti si sono estesi alle altre parti della regione. Sono stati presi di mira soprattutto i mercati e i campi in cui risiedevano ancora centinaia di migliaia di profughi dello scorso conflitto.
Khartoum sempre al centro del conflitto
A Khartoum i combattimenti non si sono mai completamente interrotti, in una dinamica perversa per cui le Rsf occupavano i quartieri residenziali, per razziarli ma soprattutto per farsi scudo della popolazione; mentre l’aviazione militare li bombardava incurante dei danni ai civili e alle infrastrutture della loro stessa capitale.
Tutto ciò avviene nonostante le numerose tregue cui le due parti combattenti si sono impegnate a mantenere, per permettere l’arrivo degli aiuti umanitari alla popolazione stremata.
Strategico l’ospedale militare
Negli ultimi giorni, dopo durissimi combattimenti, le Rsf hanno occupato il comando della Central Reserve Police, l’ultima di numerose sedi istituzionali cadute nelle loro mani. In queste ore starebbero mettendo sotto assedio l’ospedale militare Alia, a Omdurman, dove si troverebbe l’ex presidente e diversi pezzi da novanta del passato regime, liberati all’inizio della crisi dalla prigione di massima sicurezza di Kober, dove si trovavano dall’aprile del 2019.
L’ospedale militare, dunque, era un luogo ritenuto assolutamente sicuro, per di più in una posizione strategica, vicino ad altre sedi istituzionali, quali il parlamento, e ad alcuni ponti sul Nilo. Potrebbe cadere presto nelle mani dei miliziani delle Rsf, con conseguenze pesanti per la capitale e per le stesse sorti del conflitto.
Almeno 3mila morti
La crisi ha finora provocato almeno 3mila morti fra i civili, di cui almeno 330 bambini. Ma numerose fonti parlano di più di 5mila vittime solo nel massacro di Geneina, in Darfur. A questi vanno aggiunti migliaia di feriti, decine di migliaia di traumatizzati, centinaia di ragazze e di donne stuprate.
I profughi sono ormai almeno 2,5 milioni, 645mila dei quali hanno cercato rifugio oltre confine, ingolfando paesi come il Ciad e il Sud Sudan, già affollati di rifugiati e sfollati e gravemente instabili, tanto da rischiare di non farcela ad affrontare problemi aggiuntivi a quelli che già hanno.
Secondo stime delle organizzazioni internazionali competenti, ormai 25 milioni di sudanesi dipendono dagli aiuti umanitari internazionali per la sopravvivenza.
Le trattative per garantire almeno corridoi umanitari sono bloccate, mentre i negoziati per trovare una soluzione alla crisi non sono neppure partiti.
Un quadro tanto desolante quanto preoccupante. Secondo un’analisi pubblicata il 22 giugno dall’International crisis group, (autorevole gruppo di ricerca e advocay su questioni inerenti situazioni conflittuali), «tutti quelli che possono influenzare dovrebbero fare qualsiasi cosa possibile per fermare il disastro in Sudan». Si tratta di «un corsa contro il tempo per fermare il collasso del Sudan». Una simile eventualità «si dimostrerà un incubo per la regione per i decenni a venire». Un giudizio già espresso all’inizio della crisi dal segretario generale dell’Onu, António Guterres.
Presenza dell’Isis?
E in effetti notizie ancor più preoccupanti di quelle elencate sopra cominciano a circolare. «Ci sono prove che confermano la partecipazione dell’Isis nella guerra in Sudan», si legge nel titolo di un articolo del Sudan post, un notiziario online in arabo e inglese di solito ben informato.
A supporto della notizia, cita fonti occidentali e internazionali e racconta di trattative mediate in Libia, a Tripoli, perché i miliziani dello stato islamico scendano in campo al fianco dell’esercito regolare, confermando, così, che la vera posta in gioco del conflitto è il ritorno al passato regime, e, a quanto pare, in una forma ancora più radicale. O almeno, che per eliminare le Rsf, il capo di stato maggiore dell’esercito e presidente del paese, generale al-Burhan, non avrebbe timore di rivolgersi a forze che poi molto difficilmente potrebbe controllare.
Se davvero l’Isis riuscisse a stabilire una solida base in Sudan, potrebbe riprendere il disegno di stabilire un califfato, questa volta nell’Africa orientale, come pare fosse nei programma di espansione fin dall’inizio del suo operare.
Sullo sfondo lo scontro tra Egitto ed Etiopia
Un’analisi pubblicata sul Geopolitical monitor, un sito con sede in Canada e specializzato in intelligence internazionale, descrive invece uno scenario di conflitto regionale. Secondo l’analista, Mohamed ELDoh, l’Egitto potrebbe essere interessato a intervenire se la crisi in Sudan mettesse in gioco gli interessi del paese. Il supporto andrebbe ancora una volta all’esercito regolare dal momento che garantirebbe l’appoggio nel braccio di ferro con l’Etiopia sull’uso dell’acqua del Nilo, messo in gioco dalla Gerd, la grande diga della rinascita etiopica, e dalle politiche del governo di Addis Abeba sul riempimento unilaterale dell’enorme bacino formato dalla sbarramento. Il comandante delle Rsf, generale Mohamed Dagalo detto Hemeti, sarebbe invece molto vicino al primo ministro etiopico Abiy Ahmed, e dunque da sconfiggere a ogni costo.
Un altro elemento critico sarebbe l’aumento del traffico di esseri umani e in genere di armi e sostanze illegali da parte di reti criminali facilitate dall’apertura delle prigioni da parte delle Rsf, che hanno cosi liberato migliaia di condannati per gravi reati, pronti e legittimati a riprendere le proprie attività approfittando del caos del paese.
Un Sudan “stato fallito”, in cui non esistesse autorità costituita, come di fatto è dal 15 aprile scorso, sarebbe dunque una piaga nel centro di una regione delicatissima e già tra le più instabili del pianeta, a cavallo tra l’Africa settentrionale e quella subsahariana; tra l’Africa e il Medioriente, con conseguenze facilmente immaginabili. Scenari che evidentemente sono ben presenti agli analisti politici, all’intelligence e alla comunità internazionale in genere, chiamata a mobilitarsi piu di quanto non abbia fatto finora.