‘La portata della violenza sessuale che abbiamo documentato è sconcertante’: è in questi termini che Mohamed Chande Othman, Presidente della Missione di accertamento dei fatti per il Sudan, commenta i risultati dell’indagine commissionata dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Il quadro tratteggiato dal report, pubblicato ieri, lascia senza parole.
I responsabili sono soprattutto i miliziani delle RSF, guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti. Sebbene infatti non manchino prove anche a carico dell’esercito sudanese, i numeri relativi alla sistematicità delle violenze perpetuate dalle RSF non hanno paragoni.
Centinaia di stupri, spesso di gruppo, accompagnati da sequestri di donne e bambine in condizioni che l’Onu definisce ‘schiavitù sessuale’, una brutalità manifestata specialmente nelle aree di Khartoum, Darfur e Gezira, dove la violenza ha assunto caratteristiche di punizione etnica, colpendo in particolare le donne delle comunità Masalit. Le vittime, giovani e anziane, dagli 8 anni ai 75, vengono attaccate non solo per il loro genere, ma anche per la loro appartenenza etnica reale o percepita. Le vittime sopravvissute incontrate dagli autori del report sono 400, ma si ritiene sia una cifra ampiamente sottostimata.
Le storie che emergono dai campi profughi raccontano il dramma di queste donne e ragazze, spesso costrette a sopravvivere in condizioni disperate senza alcun accesso a cure mediche o supporto psicologico. Molti ospedali sono stati distrutti o occupati, rendendo impossibile per le vittime ricevere aiuti di base. La scarsità di strutture di supporto, inoltre, alimenta un ciclo di vergogna e colpevolizzazione che paralizza le vittime. Al punto da indurre tante donne persino al suicidio. È quanto raccontato dagli attivisti che operano nello stato centrale di Gezira e che cercano di prestare soccorso alle donne che hanno subìto gli stupri da parte dei combattenti. L’Iniziativa strategica per le donne nel Corno d’Africa (Isca), un programma che cerca di contrastare la violenza di genere e ora molto attivo in Sudan, ha documentato almeno tre casi di suicidio legati ad abusi nell’ultima settimana, in una zona ristretta di circa 50 villaggi. Gli attivisti riportano anche la notizia, dilagata in questi giorni sui social media, di ‘suicidi di massa’ commessi da donne, che pur di evitare di essere stuprate dalle Rsf si sarebbero tolte preventivamente la vita. Un’informazione che Isca ammette però di non avere avuto modo di verificare direttamente per problemi di comunicazione.
La Missione di Accertamento Internazionale delle Nazioni Unite sul Sudan ha concluso che queste azioni costituiscono crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Le violenze documentate non si fermano certo alla violenza di genere e comprendono torture, umiliazioni e persecuzioni basate su genere e etnia, una sequenza di atrocità che raramente trova riscontri, però, di responsabilità giudiziaria. Gli esperti ONU hanno sottolineato la necessità urgente di rafforzare l’intervento della Corte Penale Internazionale (CPI) per perseguire questi crimini su larga scala e hanno suggerito l’istituzione di un meccanismo giudiziario internazionale indipendente.
Intanto, si stima che ormai il 30% della popolazione sudanese sia sfollato internamente o abbia trovato rifugio nei Paesi confinanti. La crisi umanitaria. La crisi umanitaria, attualmente ritenuta la più grave al mondo, è ulteriormente aggravata dalla mancanza di aiuti: secondo i dati dell’Onu, le popolazioni civili in fuga devono spesso percorrere centinaia di chilometri senza mezzi di trasporto, senza acqua potabile e con un accesso limitato ai beni di prima necessità. (AB)
Aggiornato 31/10/2024