Lo hanno dichiarato congiuntamente pochi giorni fa la Fao, il Wfp e l’Unicef, le agenzie dell’Onu specializzate rispettivamente nel sostenere la produzione agricola, nel distribuire aiuti alimentari e nel garantire il benessere dei bambini. Nonostante i ripetuti ed accorati allarmi, gli aiuti umanitari a milioni di sudanesi che ne hanno disperata necessità continuano a non arrivare per i veti delle due parti in conflitto e per le operazioni belliche che impediscono il passaggio in sicurezza ai convogli organizzati dalle agenzie specializzate dell’Onu.
Ma anche la comunità internazionale continua a non fare abbastanza. I fondi messi a disposizione finora coprono appena il 18% di quanto richiesto nell’appello per il 2024, diffuso alla fine dell’anno scorso. Quindi 474,2 milioni di dollari ricevuti contro i 2,7 miliardi ritenuti necessari per raggiungere solo una parte delle persone che ne avrebbero bisogno: 14,7 milioni che potrebbero realisticamente essere soccorsi contro 24,8 milioni.
Tra questi, 7,3 milioni di sfollati, 2 milioni di persone che hanno cercato rifugio nei paesi confinanti, la stragrande maggioranza dei quali sono bambini, donne e persone anziane. Tra di loro è altissimo il tasso di malnutrizione, come nel resto della popolazione. Stime prudenti dicono che una decina di milioni di sudanesi sarebbe più o meno gravemente malnutrita.
Secondo El Shafie Mohamed, un medico sudanese esperto in interventi di emergenza incontrato nei giorni scorsi a Nairobi da Nigrizia, tutte le cifre, giá impressionanti, diffuse dalla comunitá internazionale sono grandemente sottostimate perché nessun operatore delle agenzie dell’Onu, o di altre organizzazioni internazionali, é presente sul terreno per questioni di sicurezza. Dunque non è possibile condurre rilevazioni basate sulla realtá e non é chiaro come le stime dei bisogni vengano effettuate. Per di piú ora la situazione è ben peggiore da quella degli ultimi mesi dell’anno scorso, quando l’appello é stato elaborato.
Colpito il “granaio” del paese
Tra la fine del 2023 e l’inizio di quest’anno è stata devastata dai combattimenti la più importante zona agricola del paese, lo stato di Gezira, dove si trova uno dei piú grandi schemi irrigui del mondo, che, attraverso una rete di migliaia di chilometri di canali, distribuisce l’acqua del Nilo Blu a circa 9mila chilometri quadrati di terreno dove vengono coltivati, tra l’altro, grano, sorgo, arachidi, verdure; prodotti che costituiscono la base dell’alimentazione dei sudanesi. Nelle ultime settimane gli scontri si sono diffusi nello stato confinante di Sennar, fino alla presa del capoluogo Singa da parte delle Forze di intervento rapido (RSF), pure caratterizzato da una buona produzione agricola.
Secondo una stima della FAO, nel 2023 la produzione di cereali nel paese é calata del 46% rispetto all’anno precedente, ma è stata sufficiente a fornire cibo, seppur scarso, alla popolazione. Ma quest’anno negli stati di Gezira e di Sennar si produrrá poco o niente e dunque non si potrá contare neppure sulla ridistribuzione della produzione interna.
Nello stato di Gezira, che conta poco piú di 5 milioni di abitanti, fin dallo scoppio del conflitto, nell’aprile dell’anno scorso, si erano rifugiate molte centinaia di migliaia di sfollati, provenienti soprattutto dalla capitale, Khartoum, dalle sue cittá gemelle, Omdurman e Khartoum Barhi, e dalle loro immediate vicinanze, zone in cui la grande maggioranza della popolazione ha dovuto abbandonare le proprie case. Secondo la testimonianza di El Shafie, il medico giá citato che è originario dello stato di Gezira, gran parte degli sfollati sono stati ospitati da familiari o amici che avevano potuto prendersene cura senza dipendere dalla comunitá internazionale grazie alle derrate alimentari ancora disponibili nella zona. Almeno un terzo delle famiglie residenti avrebbe dato assistenza ad una famiglia sfollata.
Ostilità in costante espansione
Con il diffondersi dei combattimenti prima e con il consolidarsi del controllo del territorio da parte dei miliziani delle RSF, poi, da Gezira sono fuggite centinaia di migliaia di persone. Questo ha fatto saltare i meccanismi di autoaiuto messi in atto dalla popolazione. Molti si erano rifugiati nel vicino Sennar, ora pure investito dai combattimenti e pure controllato in gran parte dalle RSf, ormai. Perciò hanno ripreso la fuga in una condizione di sempre maggiore vulnerabilità.
Le vie di salvezza sono ormai diventate pochissime. Dei 18 stati che compongono amministrativamente il Sudan, solo 3 non sono ancora stati toccati dal conflitto: lo stato del Mar Rosso (dove si trova Port Sudan, l’attuale capitale provvisoria), quello di Kassala e quello del Nord, tutti controllati dall’esercito, SAF, in cui funzionano ancora le istituzioni insediatesi dopo il colpo di stato del 25 ottobre 2021, preludio all’attuale conflitto. Attraverso il porto gli aiuti internazionali possono raggiungere il paese e, seppur tra mille impedimenti burocratici, vengono distribuiti all’interno di quel territorio, ma non passano le linee del fronte per il veto delle autoritá di Port Sudan che stanno usando il cibo, o meglio la mancanza di cibo, come un’arma di guerra, per affamare la popolazione nel territorio controllato dal nemico. Crimini purtroppo giá visti anche in altri conflitti.
Gli sforzi, sempre più difficili, dal basso
Negli ormai 15 mesi della guerra, la popolazione ha messo in moto strategie di resilienza che vanno spegnendosi per la mancanza di supporto. Tra le piú efficaci, le cucine comunitarie, organizzate dai comitati di resistenza – nati durante i mesi del movimento popolare che ha portato alla caduta del trentennale regime islamista del presidente Omar al-Bashir – trasformatisi in comitati di emergenza – emergency response room – all’inizio degli scontri. Volontari hanno raccolto il cibo donato o sottratto alle razzie di uomini armati e lo hanno cucinato per distribuirlo agli abitanti della zona in cui operavano, in modo da massimizzare la resa e minimizzare l’uso di carburante e gli sprechi. Secondo la testimonianza di un loro rappresentante ad un’iniziativa organizzata a Nairobi dal Rift Valley Institute nei giorni scorsi, fino a poche settimane fa ne funzionavano almeno 330. All’inizio preparavano tre pasti al giorno. Poi sempre meno, fino a chiudere una dopo l’altra per mancanza di cibo e di denaro per procurarsene, in un mercato nero sempre meno fornito e sempre piú caro. E la gente ha cominciato a morire.
Secondo il loro rappresentante, basterebbe il 6% di quanto richiesto nell’appello di emergenza citato per rimetterle in moto e scongiurare la morte per fame di migliaia di persone. Ma le lunghezze burocratiche e le procedure richieste dalle organizzazioni della comunità internazionale bloccano di fatto l’erogazione dei fondi.
La certezza che l’uso dei denari stanziati vada a buon fine è ovviamente fondamentale nei rapporti con le organizzazioni che lavorano sul terreno. Secondo il loro rappresentante, il sistema che le cucine comunitarie hanno sviluppato consente un controllo ferreo, per ovvie ragioni. Ma sembra che non basti a rassicurare molti donatori. El Shafie osserva che, in una situazione di emergenza estrema come quella attuale in Sudan, sarebbe necessario anche prendersi qualche responsabilità e derogare dalle procedure usuali. Ma per ora, nelle zone controllate dalle RSF, dove il bisogno è di gran lunga maggiore e dove il sistema bancario é collassato, arrivano solo, o quasi, i denari mandati dai sudanesi della diaspora attraverso un’applicazione della Banca di Khartoum che funziona sui cellulari e che si basa su una rete di persone di fiducia, di solito commercianti che dispongono di contanti.
Ma il sostegno della diaspora e il lavoro volontario di migliaia di persone non possono bastare a scongiurare una catastrofe a lungo annunciata.