La notizia circolava già da alcune settimane, ma è stata ufficializzata solo nella serata del 2 gennaio dallo stesso primo ministro, Abdalla Hamdok, che in un discorso televisivo alla nazione ha annunciato le proprie dimissioni. «Ho cercato il più possibile di evitare che il nostro paese precipiti in un disastro», ha detto. Un annuncio che getta ancora più nell’incertezza il futuro politico del Sudan.
Ѐ durato solo sei settimane, dunque, il tentativo del premier di portare avanti la complessa transizione democratica. Era stato deposto con il golpe militare del 25 ottobre e reinsediato il 21 novembre dopo aver firmato un accordo con il capo dell’esercito, generale Abdel Fatah al-Burhan.
Accordo che prevedeva, tra l’altro, che i militari cessassero la dura repressione delle manifestazioni di protesta popolari e gli arresti di attivisti pro-democrazia, intensificate nelle ultime settimane con almeno 57 morti, gli ultimi 5 solo nei giorni scorsi a Khartoum.
Le crude immagini e i filmati girati con gli smartphone dai manifestanti e pubblicati sui social media ritraggono giovani uccisi da proiettili o massacrati a colpi di manganellate sulla testa, i cui corpi vengono trascinati al riparo dai compagni.
Non solo. In palese violazione della Dichiarazione costituzionale che disciplina il periodo transitorio – che stabilisce che il ruolo dell’intelligence sia solo quello di raccolta e analisi delle informazioni -, il 28 dicembre scorso al-Burhan ha temporaneamente conferito al Servizio di intelligence generale (Gis) l’autorità di arrestare in civili durante lo stato di emergenza, decretato con il golpe di ottobre.
Nel suo annuncio di ieri, Hamdok ha ammesso di non essere riuscito a nominare un governo tecnico per la mancanza di un consenso tra le diverse fazioni politiche, profondamente divise anche all’interno della coalizione delle Forze per la libertà e il cambiamento (Ffc), raggruppamento della società civile nato tre anni fa, in seguito alla deposizione del dittatore islamista Omar El-Bashir.
Scoglio insormontabile è stato il rifiuto a dimettersi dalle cariche ministeriali ricoperte degli ex leader ribelli firmatari dell’accordo di pace dell’ottobre 2020 e in particolare di Gibril Ibrahim, presidente del movimento armato darfuriano Jem (Justice and equality movement), al quale, nel nuovo esecutivo varato nel febbraio 2021, è stato affidato il ministero chiave dell’economia.
Ѐ un quadro conferma anche una fonte di Nigrizia nella capitale, coperta da anonimato per ragioni di sicurezza (voce camuffata):
Per Hamdok ora, è necessaria una tavola rotonda per produrre un nuovo accordo per la transizione politica e preparare le elezioni nel 2023. Su quali basi si possa intavolare un dialogo inclusivo tra forze e interessi sempre più frammentati e contrapposti, resta però ancora la grande incognita che pesa sul futuro del paese.
Intanto comitati di resistenza popolare hanno indetto una nuova serie di manifestazioni per i prossimi giorni. La speranza è che non vengano represse con un nuovo bagno di sangue. (MT)