Lo scorso 15 maggio il Sudan è entrato nel suo secondo mese di guerra. Una guerra tra due forze militari – l’esercito e le ex alleate milizie Forze di supporto rapido (Rsf) – che si combatte su due fronti: la capitale e la già martoriata regione occidentale del Darfur.
A Khartoum e nelle città gemelle al di là del Nilo (Omdurman e Bahri) la popolazione è intrappolata in un inferno, fatto di costanti bombardamenti aerei che colpiscono edifici e ospedali, e di combattimenti nelle strade.
Ma non solo. I sudanesi, rimasti ormai quasi senza cibo, carburante e soprattutto senza acqua potabile, hanno anche un altro nemico: gang criminali che operano razzie nei magazzini, nei negozi e nelle case, fermando i civili anche con posti di blocco e sequestrando le auto e ogni altro bene.
Sono gruppi armati che nella maggioranza delle testimonianze da noi raccolte vestono divise militari, in particolare quelle delle Rsf.
I paramilitari del generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, non hanno risparmiato nemmeno i luoghi di culto. Hanno occupato e razziato la notte del 13 maggio la cattedrale copta Mar Girgis (St. George) nel quartiere Masalma di Omdurman, una chiesa anglicana nel distretto di Al Amarat (il 16 maggio) e la chiesa cattolica della Vergine Maria e la cattedrale episcopale di Ognissanti, trasformata in una base militare. La moschea El Azhari e la moschea Bur’i El Dereisa a Khartoum sono state invece bombardate.
Le Forze di supporto rapido hanno anche preso il controllo della raffineria di Al Jaili, 60 km a nord di Khartoum, una delle due raffinerie del Sudan, da cui parte l’oleodotto diretto a Port Sudan.
I racconti che ci arrivano ogni giorno dalla capitale sono agghiaccianti. Stupri di gruppo, vessazioni, cadaveri lasciati per giorni nelle strade sotto il sole, proiettili vaganti che entrano nelle case, bombe e razzi che piovono dal cielo. E persone che sfidano la morte per cercare qualcosa da mangiare e acqua da bere.
I morti tra i civili sono ormai quasi mille, ma sono solo quelli che le organizzazioni dei medici hanno potuto verificare. Più di 6mila i feriti, ma la maggior parte degli ospedali sono stati colpiti, razziati, o a corto di farmaci.
Incubo janjaweed
Uno scenario che si ripete a El Geneina, capitale del Darfur Occidentale, storica capitale del regno della tribù massalit e simbolo del potere delle popolazioni nere della regione, dove la situazione appare ancora più tragica.
Dal 24 aprile El Geneina è sotto attacco. Secondo testimonianze raccolte dalla Bbc, dopo il ritiro dell’esercito, la città è stata conquistata dalle Rsf che nella regione non hanno mai smesso di portare avanti il progetto dell’ex presidente El-Bashir, di annientamento delle popolazioni autoctone, a favore delle tribù arabe.
Un progetto iniziato nel lontano 2003, quando le attuali Rsf venivano chiamate janjaweed, i diavoli a cavallo. Anche allora il loro comandante era Hemetti, nipote di un capo della tribù nomade arabo-ciadiana rizeigat, divenuto negli ultimi 20 anni uno degli uomini più ricchi e potenti del paese, anche grazie al controllo delle miniere d’oro del Darfur.
La città è stata bombardata, bruciata e saccheggiata dalle Forze di supporto rapido e dai miliziani arabi alleati che arrivano a sostegno dal vicino Ciad. Al momento è pattugliata da uomini armati con cecchini posizionati negli edifici che sparano a ogni cosa si muova.
I medici locali riportano che almeno 280 persone sono state uccise e 160 ferite solo negli ultimi giorni. E oltre 2mila morti dall’inizio del conflitto.
El Geneina è senza elettricità da settimane, non c’è più acqua corrente e i mercati sono chiusi. Il cibo scarseggia e i prezzi sono saliti alle stelle. Chi non viene ucciso per strada rischia di morire di fame, perché le Rsf hanno dato fuoco ai magazzini in cui erano stoccati generi alimentari e farina.
Le organizzazioni umanitarie internazionali – tra cui Medici senza Frontiere – e quelle delle Nazioni Unite se ne sono andate e non sono in grado di fornire aiuti di emergenza. Di fatto, dunque, la città è completamente isolata e abbandonata a sé stessa, tanto che, per difesa, alcuni residenti sono stati costretti ad imbracciare un’arma per la prima volta nella loro vita.
Intanto sono arrivati migliaia di sfollati in cerca di riparo e sussistenza. Fuggono dai campi profughi frutto della lunga guerra interna, attaccati dagli uomini di Hemetti.
Altre circa 100mila persone hanno abbandonato le loro case in città e rimangano “in balia della violenza incessante, con gli insediamenti nuovamente ridotti in cenere”, fa sapere il Norwegian Refugee Council (Nrc).
Emergenza umanitaria
Le Nazioni Unite hanno affermato ieri che 25 milioni di persone, più della metà della popolazione sudanese, ha ora bisogno di aiuto e protezione. Ѐ il numero più alto mai registrato in Sudan, dove circa 15 milioni necessitavano di sostegni già prima del conflitto. L’Onu ha lanciato un appello per raccogliere 3 miliardi di dollari.
In totale sono al momento 843.130 le persone sfollate all’interno del paese (ultimi dati Oim), che si aggiungono ai 3,7 milioni di sfollati già presenti in Sudan prima dello scoppio della guerra. Altri più di 200mila hanno cercato rifugio nei paesi vicini.
Sei aerei di aiuti umanitari, inviati da diversi paesi e organizzazioni, sono arrivati ieri a Port Sudan, ma restano dubbi sulla possibilità di farli arrivare alle stremate popolazioni di Khartoum e El Geneina.
Ed è uno scenario che sembra destinato ad aggravarsi, visto che gli sforzi internazionali compiuti finora per arrivare a un cessate il fuoco umanitario non hanno dato alcun risultato. Anche perché si ha la sensazione che, almeno nella capitale, i vertici militari, in particolare le Rsf, fatichino a mantenere il pieno controllo loro truppe.
A Jeddah, in Arabia Saudita, intanto, continuano le trattative per trovare un’intesa che permetta l’ingresso e il movimento degli aiuti, dopo il fallimento di tutti i precedenti accordi di cessate il fuoco.