In Sudan, da un anno e mezzo devastato dal conflitto tra l’esercito nazionale (SAF) e le milizie delle Forze di supporto rapido (RSF), gli episodi di violenza e le violazioni plateali dei diritti umani di base si moltiplicano e si differenziano.
Nei giorni scorsi Justice Africa Sudan (JAS) – autorevole organizzazione specializzata in advocacy e ricerca socio politica fondata a Khartoum nel 2008 – ha denunciato l’arresto di gruppi di cristiani nuba a Shendi, nello stato del River Nile (Fiume Nilo) ad opera dell’intelligence militare dell’esercito.
I gruppi, per un totale di 72 persone, erano in fuga da Khartoum Bahri (conosciuta anche come Khartoum Nord) una delle tre città che formano l’area metropolitana di Khartoum, la capitale del paese. Nella zona, dalla fine di settembre è in atto un’offensiva delle SAF per riguadagnare territorio controllato dalle RSF fin dall’inizio del conflitto.
Secondo JAS, tra gli arrestati si trovava un prete e alcune famiglie, formate soprattutto da donne e minori di età comprese tra i sei mesi e i sedici anni. Donne e bambini piccoli sarebbero stati rilasciati nel giro di poche ore.
16 tra uomini e ragazzi, compreso il religioso, il 10 ottobre erano ancora nelle mani dell’intelligence militare ed erano in condizioni critiche, sottoposti a interrogatori stringenti e a torture.
Negli ultimi giorni altri 14 detenuti sarebbero stati rilasciati. Solo due sarebbero ancora agli arresti per ulteriori investigazioni. Lo ha comunicato Mubarak Ardol, politico di origine nuba, ora associato al governo militare, con un post riportato dal Sudan War Monitoring, in cui sembra che la maggior preoccupazione sia quella di giustificare l’operato delle autorità governative.
“Le agenzie di intelligence hanno il diritto di vigilare in questo periodo, specialmente nelle zone sulla linea del fronte, mentre i cittadini hanno il diritto di muoversi liberamente e di avere protezione”.
Seguono i ringraziamenti a chi ha lavorato per la liberazione delle persone ingiustamente arrestate, in particolare le autorità competenti e la Chiesa che ha gestito la questione con riservatezza.
Tanto che l’episodio, avvenuto all’inizio del mese, è diventato di dominio pubblico solo un paio di giorni fa.
Il Sudan War Monitor premette di non aver ricevuto conferme indipendenti del rilascio. Mentre il giro delle frasi e le parole usate da Ardol sembrano volte a mettersi un fiore all’occhiello, forse anche in forza della comune appartenenza etnica.
Justice Africa Sudan afferma che l’episodio non è isolato, ma si inquadra nella repressione dell’esercito sulla popolazione che è rimasta nelle zone controllate per mesi dalle RSF.
Il sospetto, nella stragrande maggioranza dei casi del tutto infondato, è che abbiano collaborato con le milizie e che conoscano segreti utili a chi è subentrato nel controllo del territorio.
Il giro di vite nei confronti dei civili riguarderebbe in particolare avvocati, politici locali, attivisti e volontari che hanno offerto servizi, come le cucine comunitarie e le Emergency Rooms, che in molti casi hanno permesso la sopravvivenza della gente intrappolata nel conflitto.
Bisogna precisare che minacce e arresti ingiustificati sono bipartisan, cioè riguardano anche chi si trova nei territori controllati dalle Forze di supporto rapido.
L’elemento nuovo dell’episodio denunciato da JAS sta nel fatto che il gruppo arrestato era composto da cristiani nuba. Circostanza che fa pensare che ci sia anche una componente di persecuzione religiosa ed etnica.
I nuba sono visti con particolare sospetto perché provengono, o hanno radici familiari, nei Monti Nuba, una zona controllata da un movimento di liberazione – SPLM Nord, ala di Abdel Aziz al Hilu – che da oltre un decennio combatte per l’autodeterminazione e che in questo conflitto non si è schierato con nessuno dei due contendenti.