Mentre si aggravano quotidianamente le condizioni di vita della popolazione intrappolata dai combattimenti in Sudan, si complica il quadro del conflitto e sembra allontanarsi la possibilità di una soluzione politica a breve, o almeno a medio termine, che ne limiti le conseguenze sia sul piano interno che sulla stabilità dell’intera regione.
Lo scontro tra l’esercito nazionale (SAF) e le Forze di supporto rapido (RSF), che avevano insieme governato dopo il colpo di stato del 25 ottobre 2021, ha di fatto lasciato il Sudan in una sorta di limbo.
Il paese è sospeso dall’Unione Africana fin dal 6 giugno 2019, all’indomani del massacro dei civili che dimostravano pacificamente di fronte al comando centrale dell’esercito, nel centro di Khartoum.
La riammissione era condizionata al passaggio dei poteri ai civili, che non è mai avvenuta. Anche nel periodo in cui era in carica un governo civile, la massima autorità del paese, il Consiglio sovrano, era presieduto dal generale Abdel Fattah al-Burhan, capo di stato maggiore dell’esercito.
A maggior ragione, le istituzioni emerse dal golpe di ottobre non avevano mai ricevuto nessun riconoscimento internazionale. Tuttavia, in questi mesi di conflitto, l’esercito si è arrogato il ruolo di “governo legittimo” che combatte una ribellione.
E ha sottolineato il concetto ordinando lo scioglimento dell’ex alleato ora avversario. Il provvedimento ovviamente non ha avuto e non avrà ripercussioni pratiche prima della risoluzione della crisi, senza contare il fatto che alcuni giuristi ne contestano la stessa legittimità.
Contestato riconoscimento ONU
Ma evidentemente la narrativa ha fatto presa, tanto che il generale al-Burhan ha partecipato alla scorsa Assemblea generale dell’ONU e il suo discorso è stato ascoltato come se fosse quello di un presidente legittimo.
La circostanza è stata stigmatizzata dall’ex primo ministro sudanese Abdallah Hamdok come “un incoraggiamento ai colpi di stato militare nel continente africano”.
Lo ha scritto in una lettera al segretario generale dell’ONU Antonio Guterres, firmata anche da un paio di ex componenti del Consiglio sovrano, da alcuni ministri del governo civile di transizione deposto dal golpe del 25 ottobre 2021 e da Yassir Arman, noto esponente delle forze politiche di opposizione.
Nella missiva si dice anche che la presenza di al-Burhan all’ONU è in contraddizione con quanto affermato dalla comunità internazionale che si è sempre detta contraria al golpe che ha fermato la transizione democratica sudanese.
Anche la coalizione dei gruppi della società civile e delle forze politiche democratiche ha espresso il suo disappunto con una dichiarazione, diffusa il 22 settembre, in cui si dice che al-Burhan nel suo discorso non aveva indicato nessuna via per la pace, e nemmeno per la ripresa di negoziati.
Vi si afferma, infine, che la sua presenza in quel prestigioso consesso non rispecchiava la volontà dei sudanesi.
La presenza di al-Burhan all’Assemblea generale dell’ONU potrebbe segnalare una certa propensione della comunità internazionale a imboccare scorciatoie per la ricerca di soluzioni “facili” o “veloci” a crisi complesse.
Ѐ stato il riconoscimento di fatto di un interlocutore, un punto fermo in uno scenario sempre più problematico.
Peccato che l’interlocutore prescelto non sia considerato legittimo da chi pretende di rappresentare, mentre per ora, almeno pubblicamente, non hanno voce e visibilità le forze politiche e civili, le sole a poter giocare un ruolo in un processo di pace che piloti il paese fuori dalla crisi e rimetta in moto la transizione verso la democrazia.
Non solo esercito e RSF
La crisi sudanese, già complessa, si sta ulteriormente complicando anche sul campo di battaglia. Gli scontri si stanno velocemente diffondendo nel paese mentre sempre nuovi attori si presentano sulla scena.
Da giugno si combatte nel Kordofan Meridionale, con particolare violenza attorno a Kadugli, il capoluogo.
Gli scontri, che hanno già provocato almeno molte decine di migliaia di sfollati, sono tra l’esercito e una parte del SPLM-N, quella guidata da Abdel Aziz al-Hilu, che da anni controlla la zona dei Monti Nuba.
Secondo le dichiarazioni ufficiali, l’SPLM-N avrebbe ripreso i combattimenti dopo anni di tregua per difendere le sue posizioni, ma sembra evidente che stia cercando anche di allargare il territorio controllato, forse per giocare con maggior forza la carta dell’autonomia regionale, obiettivo sempre perseguito nella sua azione.
L’SPLM-N, ala Abdel Aziz, ha ripreso le armi anche nello stato del Nilo Blu. Anche là lo scontro è con l’esercito, ma l’avversario è soprattutto SPLM-N, ala Malik Aggar, originario del Nilo Blu, ora vicepresidente del Consiglio sovrano e dunque alleato di al-Burhan.
Un confronto si è aperto anche nel Sudan Orientale, a Port Sudan, città portuale che di fatto funziona ora da capitale del paese.
Per il momento si è trattato di scaramucce limitate, tra l’esercito e la milizia del gruppo etnico beja, maggioritario nella zona.
Il loro leader, Shibah Dirar, ha dichiarato in un’intervista che sostiene l’esercito nel conflitto con le RSF, ma questo non significa che supporti la presenza dell’esercito nel Sudan Orientale. Nella zona c’è dunque un equilibrio instabile che rischia di saltare in ogni momento.
Emergono anche nuove forze a supporto dei due contendenti principali.
A fianco dell’esercito si stanno schierando milizie islamiste. Uno dei gruppi emergenti è il Sudanese Popular Resistance Factions, con quartier generale ad Omdurman e obiettivo la liberazione di Khartoum dalle RSF.
Ne ha parlato per primo il bollettino Sudan War Monitoring, ripreso da Radio Dabanga.
Nello stesso articolo viene nominato anche un altro gruppo, El Bara Bin Malik Brigade, che avrebbe radici nelle forze speciali dei riservisti formate da militanti delle Forze di difesa popolare (Popular Defence Forces – PDF) che hanno formato il cuore delle forze di sicurezza negli anni d’oro del passato regime del deposto presidente Omar El-Bashir, in particolare.
Sono solo due dei numerosi gruppi citati nell’articolo di Radio Dabanga.
In Darfur è ormai chiaro che le RSF sono affiancate da milizie arabe, anche provenienti dai paesi della regione, e in particolare dal Ciad. Per quanto riguarda il Niger, la questione è stata discussa dai due ministri degli esteri a latere dell’ultima Assemblea generale dell’ONU.
Ѐ ormai evidente che il conflitto sudanese sta andando, o è ormai andato, fuori controllo.
Non a caso il segretario generale dell’ONU ha segnalato il «pericolo di una guerra civile totale e di divisioni in Sudan». Con ovvie conseguenze nella regione ma anche nelle relazioni internazionali.
Basti citare l’incontro, sembra non programmato, tra al-Burhan e il presidente ucraino Zelensky, in un aeroporto irlandese, mentre circolavano indiscrezioni sull’uso di droni ucraini contro le RSF. Mentre da tempo si parla di rifornimenti del gruppo Wagner per le RSF.
Un quadro complesso, variegato e in movimento che cercheremo di approfondire nei prossimi articoli sulla crisi sudanese.