Esattamente due anni fa, l’11 aprile 2019, una mobilitazione popolare iniziata nel dicembre dell’anno precedente metteva fine al regime islamista del Partito del congresso nazionale (National congress party – Ncp) guidato dal presidente Omar al Bashir.
Ora il deposto presidente è in carcere per gravissimi episodi di corruzione, in attesa che il nuovo governo decida se e quando consegnarlo alla Corte penale internazionale che lo accusa di crimini di guerra e contro l’umanità oltre che di genocidio per la conduzione del conflitto in Darfur.
Dall’11 aprile di due anni fa è cominciata una complessa transizione che si fonda sulla divisione dei poteri, e il compromesso, tra l’esercito, che aveva cercato di scippare la vittoria popolare instaurando un altro regime militare, e le forze che avevano mobilitato la popolazione e guidato la rivolta.
In due anni, nonostante gli equilibri instabili tra le diverse componenti delle istituzioni provvisorie, che dureranno fino alle elezioni previste nel 2024, nel paese diverse cose sono cambiate. Con l’accordo di pace, firmato a Juba, Sud Sudan, il 31 agosto dell’anno scorso, è stato raggiunto l’obiettivo considerato da tutti gli attori nazionali e internazionali come il prerequisito sul quale fondare una reale svolta nel paese, tormentato da conflitti interni fin dai primi anni dell’indipendenza.
Con le riforme promosse dal ministero della giustizia, sono state messe le premesse per la revisione del corpo legislativo basato sulla legge islamica, la sharia, in modo da cominciare a garantire diritti basati sulla cittadinanza piuttosto che sull’appartenenza religiosa. Con l’istituzione di commissioni apposite, è cominciato lo smantellamento del sistema di potere, il deep state, che aveva permesso al regime dell’Ncp di tenere in pugno il paese per quasi trent’anni.
Con alcune riforme nel settore economico il governo provvisorio sta cercando di combattere la corruzione e la svalutazione della moneta, vere piaghe che impediscono la ripresa del paese. Ma, a giudicare dalle notizie che arrivano quotidianamente dal paese, molto, anzi moltissimo resta ancora da fare.
In Darfur sembra di essere tornati agli anni bui del conflitto, nel primo decennio del 2000. Dall’inizio di quest’anno si sono susseguiti scontri violentissimi soprattutto nel Darfur Occidentale, ma non solo. Centro delle violenze il suo capoluogo, El Geneina, e il campo profughi Krinding, che si trova nelle sue immediate vicinanze, abitato in maggioranza da masalit, uno dei gruppi etnici non arabi maggioritari nella regione.
Lo scorso gennaio, in attacchi che si sono susseguiti per giorni, ci sono stati centinaia di morti, la stragrande maggioranza civili, e almeno 150mila persone sono state messe in fuga mentre i loro beni venivano razziati e le loro case venivano rase al suolo e incendiate. Nella scorsa settimane gli scontri sono ripresi, lasciando sul terreno almeno 132 vittime e un numero tale di feriti che gli ospedali della città non sono più in grado di farsene carico.
Molti, anche in Sudan, descrivono la situazione come conflitto inter-comunitario, dal momento che gli attacchi ai masalit arrivano da milizie concordemente descritte come arabe. Ma il governatore, Mohamed El Doma, rifiuta questa lettura. Nei giorni scorsi ha dichiarato a The new humanitarian, sito che da 25 anni si occupa di informazione dalle zone di crisi, che: “(la violenza) non è tribale, è politica. L’Ncp – cioè il vecchio regime – vuole destabilizzare la situazione”.
E ha buon gioco, fomentando rivalità dovute ai diritti alla terra, riportati in primo piano dagli accordi di pace che garantiscono agli sfollati il ritorno ai villaggi di origine. Ma in quegli stessi villaggi, da oltre un decennio, si sono stabiliti gruppi arabi, provenienti anche dai paesi vicini, cui il passato regime ha concesso a tambur battente la cittadinanza, allo scopo di modificare la demografia della regione a vantaggio del proprio progetto politico, quello di un Sudan arabo e islamico.
La popolazione accusa il governo di Khartoum di non essere in grado di difenderla e addita le Forze di intervento rapido (Rapid support forces – Rsf) come responsabili delle violenze. Questa milizia, accusata anche in passato di gravissimi abusi nei confronti dei civili, da tempo è stata integrata nell’esercito nazionale, ma agisce ancora in modo autonomo.
Il suo comandante, Mohamed Hamdan Dagalo (conosciuto come Hemetti) è ora il vicepresidente del Consiglio Supremo, l’istituzione che funziona da Consiglio di presidenza del paese, e il maggior negoziatore degli accordi di pace di Juba. Ma le Rsf sono quotidianamente indicate come responsabili di violenze, abusi e instabilità in diverse zone del paese. In questo periodo sotto attacco è il Sud Kordofan dove si verificano gravi incidenti quasi tutti i giorni.
Grossi problemi sono segnalati non solo per quanto riguarda la sicurezza, ma anche nel campo dei diritti civili. Venerdì 9 aprile centinaia di donne appartenenti a numerose associazioni femminili e femministe hanno dimostrato davanti al ministero della giustizia, a quello dell’interno e ai maggiori uffici del potere giudiziario. Hanno chiesto che il paese aderisca ai trattati internazionali per la difesa dei diritti delle donne, che vengano abolite le leggi che discriminano in base al genere e che si intervenga contro la violenza di genere, anche quella che si perpetra in famiglia.
La dimostrazione faceva seguito ad episodi che riportavano il dibattito sui diritti delle donne ai tempi del deposto regime islamista. Il direttore della polizia dello stato di Khartoum, generale Eisa Ismail, ad esempio, aveva chiesto che fosse reintrodotta la legge conosciuta come Public Order Law, abilita alla fine del 2019, che di fatto serviva sopratutto a controllare la vita e le scelte private delle donne, compreso il tipo di abbigliamento con cui era loro consentito presentarsi in pubblico.
Chi trasgrediva rischiava di essere frustata pubblicamente. Durante il corteo, diverse partecipanti sono state attaccate fisicamente e verbalmente da un uomo, poi arrestato. Un segno della difficile trasformazione anche culturale in corso.
Ai problemi della transizione, di cui i due casi riportati sopra non sono che esempi, si aggiungono quelli dovuti all’aggravarsi della crisi etiopica, ormai a tutti gli effetti diventata regionale. Per quanto riguarda il Sudan, particolarmente preoccupante è la tensione sul confine, nella zona contesa di Al-Fashaqa, dove si registrano scontri quotidiani con diverse vittime da entrambe le parti e numerosi prigionieri di guerra.
Nei prossimi giorni l’esercito sudanese consegnerà a quello etiopico una sessantina di prigionieri, in un gesto di distensione, ma anche come segno evidente della necessità di trovare un accordo che vada oltre l’uso delle armi in un momento particolarmente difficile nelle relazioni tra i due paesi.
Si è complicata infatti anche la situazione relativa alla Gerd, la grande diga della rinascita etiopica. Sono naufragati i negoziati facilitati dall’Unione africana che si sono tenuti la scorsa settimana a Kinshasa, nella Repubblica democratica del Congo. Contemporaneamente Addis Abeba ha comunicato che nella prossima stagione delle piogge inizierà la seconda fase di riempimento dell’invaso.
Provvedimento unilaterale, e perfino provocatorio, che già l’anno scorso aveva aggravato i rapporti con i paesi a valle, Sudan ed Egitto. Bisogna osservare che anche le questioni di confine e quelle relative alla Gerd sono in qualche modo eredità del passato regime che non aveva cercato soluzioni e accordi tempestivi, quando la situazione regionale era certamente più stabile e il clima più favorevole.
L’anniversario della caduta del regime dell’Ncp si celebra dunque in un momento particolarmente complicato, in cui le eredità del passato rischiano di mettere un pesante freno alla già faticosa transizione del paese. E non è detto che il freno non sia azionato anche da qualche settore all’interno stesso delle nuove istituzioni. Il lunghissimo periodo di transizione e la congiuntura regionale non sembrano, purtroppo, essere elementi favorevoli alla stabilità e alla trasformazione democratica del paese.