L’arresto, il 13 febbraio, di Mohamed al-Faki Suleiman, ex membro del Consiglio sovrano – il governo transitorio di condivisione del potere tra civili e militari, istituito dopo il rovesciamento del regime del generale Omar El-Bashir nell’aprile 2019 e parzialmente sciolto dopo il golpe militare del 25 ottobre 2021 -, è solo l’ultimo di una lunga serie di detenzioni di oppositori al regime.
Il suo arresto segue quello di altri due importanti politici dello stesso esecutivo, Wagdi Salih e Khalid Omer Yousif, la settimana prima. Tutti e tre facevano anche parte di una task force che lavorava per smantellare la rete politica e finanziaria di El-Bashir e del suo partito islamista, Partito del congresso nazionale (Ncp).
Arresti che segnalano una stretta dell’esercito sulle opposizioni, non più solo represse nel sangue durante le centinaia di manifestazioni di protesta popolare – 81 i morti, per lo più giovani, dal golpe di ottobre, denuncia l’Associazione dei medici sudanesi – ma anche oggetto di sempre più frequenti rastrellamenti casa per casa, intensificati negli ultimi quattro mesi anche grazie all’imposizione dello stato di emergenza. Sarebbero oltre 100 i detenuti politici incarcerati senza accusa formale di reato, entrati oggi in sciopero della fame, denuncia l’associazione degli avvocati.
Nel mirino politici delle Forze per le libertà e il cambiamento (Ffc) ed esponenti dei Comitati locali di resistenza, percepiti dai militari, e a ragione, come un potente nemico da abbattere per la loro capacità organizzativa e il crescente consenso tra la gente in tutto il paese.
Ma i recenti arresti di Suleiman, Yousif e Salih segnalano prima di tutto una cosa. Che i militari, per trent’anni pilastro del regime imposto dal Ncp, non hanno nessuna intenzione di cedere il potere a un governo di civili, e tanto meno di negoziare con loro. Nonostante le pubbliche affermazioni di apertura al dialogo.
Ogni mossa fatta dal 25 ottobre – quando avrebbero dovuto lasciare il posto agli esponenti delle Ffc alla guida del Consiglio sovrano – indica chiaramente la direzione presa dall’attuale capo dell’esercito, generale Abdel Fattah al-Burhan, e dal suo vice alla testa del Consiglio sovrano, Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti. Quella di una restaurazione, in chiave attualizzata, del vecchio regime.
Una restaurazione fatta a piccoli passi e alternata a effimere dichiarazioni di apertura al dialogo per non irritare la comunità internazionale, secondo un copione già rodato da altre élite militari golpiste in Africa (Ciad, Mali, Guinea, Burkina Faso). Lo slogan, nelle sue varie declinazioni, è sempre lo stesso: «Siamo stati costretti al colpo di mano per difendere il paese e superare un pericoloso stallo delle istituzioni. Lo abbiamo fatto per il popolo, a difesa della rivoluzione».
Intanto, però, pezzo dopo pezzo, ricostruiscono quel sistema di autodifesa che per tanti anni ha garantito loro privilegi e immunità, e che con enormi fatiche “il popolo” aveva iniziato a smantellare: dal reinsediamento dei funzionari vicini al Ncp nei posti chiave delle istituzioni, alla mano libera concessa ai servizi di intelligence nell’arresto e nella detenzione di civili, fino ad arrivare alla modifica, già più volte ventilata, del documento costituzionale firmato con le Ffc il 17 agosto 2019, che prevede, tra le altre cose, la riforma delle forze armate sudanesi.
Intoccabili
Una riforma che non si farà, come ha dichiarato, per la prima volta pubblicamente, al-Burhan il 12 febbraio. Un rifiuto peraltro già manifestato in passato anche da Hemetti. «Nessuno ha il mandato di interferire negli affari militari e nessuno può parlare di riforma o ristrutturazione delle istituzioni militari, ad eccezione delle forze che vengono scelte dal popolo attraverso le elezioni», ha detto al-Burhan. Ma il voto, semmai dovesse davvero svolgersi come inizialmente previsto nel 2023, è una meta ancora lontana. E che quindi per ora non disturba i sonni del generale.
La riforma dell’apparato di sicurezza è anche ribadita nell’accordo di pace di Juba, firmato nell’agosto 2020 con la maggior parte dei gruppi armati sudanesi. I due documenti citati prevedono, tra l’altro, lo smantellamento delle Forze di supporto rapido (Rsf), guidate da Hemetti, e la consegna a un governo guidato da civili di tutte le società e le imprese economiche.
Potere e denaro
E questo è il vero tasto dolente per l’élite militare sudanese, nelle cui mani si concentra l’intera ricchezza del paese. Esercito e Rsf possiedono una variegata serie di aziende che operano nei settori dell’industria civile, dell’agricoltura, dell’esportazione di carne e dell’estrazione mineraria (oro, in particolare), oltre alle industrie militari.
Non è un caso, quindi, che nelle scorse settimane i manifestanti nel nord del paese abbiano bloccato l’arteria stradale che collega Sudan ed Egitto, fermando centinaia di camion di merci diretti al Cairo, accusato di sostegno al regime.
Nel quadro delle riforme economiche concordate con le istituzioni finanziarie internazionali prima del golpe, e attualmente congelate, il governo di transizione avrebbe dovuto porre fine alle esenzioni fiscali e alle agevolazioni di cui godono queste società. Il cui controllo – e conseguenti entrate economiche – avrebbe dovuto passare nelle mani, e nelle casse, dello stato.
Attualmente il governo transitorio, peraltro frutto di un rimpasto fatto dai vertici militari dopo il golpe con l’esclusione di quasi tutte le “persone non grate”, non ha alcun controllo sulle compagnie in mano ai militari e ne ignora i beni e le capacità finanziarie.
In questo contesto si inserisce il tentativo della missione delle Nazioni Unite in Sudan (Unitams) che ha concluso il 13 febbraio un primo giro di consultazioni con le decine di attori in campo sul terreno della politica e dei movimenti della società civile in tutto il paese, per trovare intese che permettano di uscire dalla crisi. Il prossimo round tocca ai militari.