Sono passati ormai sette mesi dal 15 aprile, una data che sarà ricordata tra le più buie della storia del Sudan. Il conflitto iniziato quel giorno tra l’esercito nazionale (Sudan Army Forces – SAF) e le Forze di supporto rapido (RSF) ha devastato il paese portandolo sull’orlo dell’implosione.
I combattimenti continuano con sempre rinnovata violenza non più solo nella capitale Khartoum, e in Darfur, ma anche nel Kordofan e negli stati del Nilo Bianco e di Gezira.
Anche il resto del paese è insicuro, affollato da milioni di sfollati – dai 5 ai 7, secondo le fonti e le modalità di calcolo – in fuga dalle zone di guerra, cui è quasi impossibile far arrivare gli aiuti internazionali che, per ora, sarebbero comunque in grado di coprire a malapena il 25% dei bisogni più urgenti.
Il 50% circa della popolazione non può più essere autosufficiente a causa del blocco di molti settori economici e del difficoltoso funzionamento di quello bancario. Il sistema sanitario è stato gravemente colpito e non riesce più a far fronte ai crescenti bisogni della popolazione. Le scuole di ogni ordine e grado sono chiuse.
La situazione sarà discussa nei prossimi giorni al Cairo nella Sudan Humanitarian Crisis Conference 2023 (Conferenza per la crisi umanitaria in Sudan) convocata da diverse autorevoli organizzazioni della società civile, mobilitate dall’inizio del conflitto per far sentire la loro voce nella ricerca di una soluzione che rimetta in moto la transizione democratica avviata con le mobilitazioni popolari del dicembre 2018.
RSF all’attacco, obiettivo Port Sudan
Il paese è ormai di fatto spaccato in due.
Il Darfur e una buona parte di Khartoum e Khartoum Nord sono nelle mani delle RSF che ora sono all’attacco anche a sud della capitale, per il controllo della diga di Jebel Aulia e delle vie di comunicazione che si intersecano nella zona per garantire il rifornimento dei miliziani nella capitale, reso difficoltoso dalla distruzione di uno dei ponti sul Nilo che permettono il collegamento tra le sue varie zone e le diverse vie di collegamento con il resto del territorio.
Omdurman, il Sudan orientale e le rive del Nilo verso nord, zona di origine e radicamento della leadership che ha guidato il paese dall’indipendenza, sono ancora controllate dall’esercito nazionale che sembra però essere sempre più in affanno.
Secondo l’analista politica sudanese Kholood Khair, fondatrice e direttrice del centro studi Confluence Advisory, con sede a Khartoum, citata da Reuters, il prossimo obiettivo delle RSF potrebbe essere Port Sudan che, secondo le dichiarazioni del loro capo militare, fratello del comandante e padrone, Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto come Hemeti, potrebbe essere presa in una settimana.
L’obiettivo sarebbe chiaro, dice Kholood: «Le RSF vogliono prendere terreno sufficiente a dichiarare vittoria unilateralmente» e per questo Port Sudan, dove sono state trasferite le istituzioni nazionali e internazionali dopo lo scoppio del conflitto, è cruciale.
La supposizione di Kholood potrebbe essere confermata dal sostanziale fallimento del nuovo round dei negoziati tenutisi a Jeddah all’inizio di novembre, facilitati da USA e Arabia Saudita, cui hanno partecipato anche inviati dell’Unione Africana e dell’IGAD.
Nulla di fatto sull’accordo per un cessate il fuoco, che non sarebbe interessante per nessuna delle due parti in conflitto, dice un articolo pubblicato su The East African lo scorso 11 novembre.
Le SAF sono fortemente influenzate da esponenti del passato regime, per cui la guerra civile sarebbe l’unico modo per riprendere il potere, afferma Jihad Mashamoun, un analista politico sudanese, ricercatore all’Istituto di studi arabi e islamici dell’Universita di Exeter, in Gran Bretagna.
Le RSF, invece, prosegue il ricercatore, se si arrivasse ad un cessate il fuoco non saprebbero come pagare i propri uomini, mercenari in gran parte affluiti dai paesi saheliani confinanti.
Secondo Jihad Mashamoun sarebbe destinato a fallire, ancora una volta, anche l’accordo per l’apertura di corridoi umanitari che sarebbero visti dai supporter dell’esercito come un modo per facilitare l’afflusso di armi e munizioni alle RSF.
Cambi di strategie
Qualcosa però sta cambiando nel paese, forse proprio nella situazione sul campo, almeno a giudicare dal cambio di strategia diplomatica del presidente e capo dell’esercito, generale Abdel Fattah al-Burhan, che nei giorni scorsi ha incontrato a Nairobi il presidente del Kenya, William Ruto, che presiede in questo periodo il tavolo dell’IGAD, nominato capo mediatore dall’organizzazione.
Finora al-Burhan si era opposto alla sua nomina e dunque la mediazione non era neppure cominciata.
Poi ha incontrato ad Addis Abeba il primo ministro etiope Ahmed Abiy, altro componente del gruppo di mediatori nominati dall’IGAD, e in precedenza aveva incontrato a Juba un terzo mediatore, il presidente sudsudanese Salva Kiir.
Ѐ un passo considerato positivamente da diversi esperti.
Yassir Arman, autorevole politico sudanese e tra i più importanti leader delle Forze per la libertà e il cambiamento (Forces for Freedom and Change – FFC) rete di opposizione, formata da partiti politici, movimenti e organizzazioni della società civile, in un’analisi pubblicata sul sito Sudan Tribune, dice che va considerato un notevole cambiamento rispetto all’uso delle divisioni regionali per evitare di sedersi ad un tavolo negoziale, modalità usata finora e ispirata dai suoi “padrini” islamisti.
Invita anche il movimento civile contro la guerra a considerarlo un passo verso la possibilità di unire le diverse piste di mediazione attualmente aperte, in favore di un negoziato di pace globale, l’unico che possa dare frutti.
Vedremo nel prossimo futuro se l’analisi è centrata.