Dal Sudan a Verona, la città scaligera in piazza per la pace
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Una conferenza e un atto pubblico ieri per sensibilizzare sul conflitto e la crisi umanitaria nel paese
Dal Sudan a Verona, la città scaligera in piazza per la pace
Nell'ambito della Seconda giornata di mobilitazione per la pace
11 Dicembre 2024
Articolo di Brando Ricci
Tempo di lettura 6 minuti

Da Khartoum e Port Sudan fino a Verona, passando per Roma e per la diaspora sudanese. È un ponte, quello che hanno idealmente costruito ieri con due iniziative una decina di organizzazioni pacifiste scaligere.

Un passaggio per inviare solidarietà con azioni concrete e per far arrivare consapevolezza su un conflitto che in 20 mesi ha causato la peggiore crisi umanitaria del pianeta. E che pure è poco considerato nel discorso pubblico e per lo più ignorato dai grandi media.

L’intenzione di mettere la crisi sudanese al centro del dibattito emerge fin dalla data scelta per l’iniziativa, 10 dicembre. Khartoum a unire quindi le diagonali dell’annuale Giornata mondiale dei diritti umani che si celebra in questa data e della Seconda giornata di mobilitazione per la pace promossa dalla Rete italiana pace e disarmo, Coalizione “Assisi pace giusta”, Europe for peace, Fondazione PerugiAssisi e Sbilanciamoci.

La giornata veronese

La manifestazione veronese si è sviluppata in due momenti nel pomeriggio: una breve conferenza con collegamenti dal Sudan e con rappresentanti della diaspora ed esperti, presso la sede dei missionari comboniani. E poi un atto pubblico, nella vicina piazza Isolo.

Nel corso di questo seconda fase è stato letto un documento che le organizzazioni promotrici – racchiuse sotto la sigla Rete 10 dicembre, a cui hanno aderito oltre 10 realtà locali fra le quali Movimento Nonviolento, Libera e il gruppo locale di Emergency – consegneranno nei prossimi giorni alle istituzioni italiane per chiedere un maggiore impegno diplomatico a favore della pace nel paese africano.

Nel corso dell’iniziativa è stata anche presentata una lettera della comunità sudanese in Italia, con un focus sul Darfur, che pure verrà consegnata al governo.

La pace in Sudan è tanto lontana quanto necessaria. Nelle stesse ore dell’iniziativa veronese, sono iniziate a circolare le notizie di nuove stragi. Sono infatti oltre 180, riportano diversi media concordanti, le vittime di due giorni di bombardamenti in diverse aree del paese, dalla periferia della capitale Khartoum a Nyala ed el-Fasher, capoluoghi rispettivamente del Darfur meridionale e di quello settentrionale.

La guerra è cominciata il 15 aprile 2023 e vede contrapporsi le Forze armate sudanesi guidate dal presidente de facto Abdel Fattah al-Burhan e le Rapid support forces (RSF), influente milizia agli ordini del generale Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemeti.

In 20 mesi il conflitto ha provocato lo sfollamento di quasi 9 milioni di persone, la fuga oltre confine di circa 3 milioni di sudanesi, decine di migliaia di vittime per quanto ancora manchino stime precise. Metà dei 50 milioni di sudanesi vivono una condizione di insicurezza alimentare, il 60% delle strutture sanitarie è fuori uso.

Si tratterebbe della più imponente crisi umanitaria mai registrata. È quanto ha sostenuto in settimana l’organizzazione internazionale International Rescue Committee, che ogni anno pubblica un rapporto sul tema. 

Le testimonianze

Numeri che assumono la forma di storie e volti nelle parole degli ospiti in collegamento con Verona. Giovanni Tozzi, responsabile di Emergency in Sudan, parla dall’ospedale Salam Centre for Cardiac Surgery della capitale Khartoum, fondato nel 2007.

«Si combatte a nord e ovest di Khartoum, noi siamo nella zona sud-est e per questo non siamo al centro dei combattimenti», spiega Tozzi. «Nonostante questo, attacchi aerei hanno colpito le vicinanze della nostra struttura più volte».

Condizioni di forte insicurezza che comunque non impediscono a Emergency, fra le molte attività, di «visitare fra 40 e 50 bambini nel reparto pediatrico che abbiamo aperto lo scorso marzo. Riusciamo a continuare a curare i nostri pazienti», riafferma il responsabile, in una struttura «in cui lavorano 400 persone dello staff locale e nove internazionali».

Le difficoltà sono molte comunque: «Manca la corrente – riferisce Tozzi – e siamo costretti a servirci di generatori che consumano tanto carburante, che a sua volta costa molto e il cui approvvigionamento non è garantito, viste le difficoltà a raggiungere Khartoum». Alla capitale si arriva tramite una sola strada.

Padre Jorge Naranjo, missionario comboniano, parla invece da Port Sudan. La città, porto sul Mar Rosso, ospita il governo guidato da al-Burhan dopo che buona parte del territorio della capitale è caduto sotto il controllo delle RSF.

«Eravamo già qui perché sostenevamo le persone sfollate che già vivevano in città: i conflitti armati non sono cosa nuova per il Sudan», premette il missionario. «Qui ci siamo riorganizzati per accogliere le persone sfollate del nuovo conflitto».

Si sono dovute rimodulare anche le attività del Comboni College of Science & Technology di cui padre Jorge è il direttore. «Da Port Sudan gestiamo una piattaforma online che permette ai nostri studenti, sparsi in tutto il paese, di proseguire nei loro studi. Abbiamo 27 docenti che si trovano ancora in Sudan e 21 che vivono fuori dal paese».

Ci sono anche «74 studenti di infermieristica che arrivano da quasi tutto il paese – esclusa el-Fasher, da cui sono stati bloccati – che fanno anche pratica in presenza».

Storie di speranza che coesistono con una grande sofferenza. È lo stesso sentimento, quest’ultimo, di cui parla Adam Nor Mohammed, portavoce della comunità sudanese in Italia.

In collegamento da Roma, una grande bandiera sudanese sullo sfondo, evidenzia come la comunità «cerchi di aiutare di concerto con altri gruppi della diaspora in Francia, negli Usa e negli altri paesi. Il nostro obiettivo – prosegue l’attivista – è sensibilizzare la società italiana, che guarda poco al Sudan, fare consapevolezza su quanto sta avvenendo». Un impegno che però, sottolinea Mohammed, «non è sufficiente: serve un movimento più ampio a livello globale».

Movimenti globali già ci sono in realtà, ma sono quelli sbagliati. «Le vie delle armi sono come quelle del Signore, sono infinite», esordisce Maurizio Simoncelli, vicepresidente e cofondatore del Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo, nonostante siano in vigore un embargo europeo su tutto il paese e uno dell’ONU rivolto verso il Darfur.

«Sappiamo da vari studi che le armi che arrivano in Sudan partono da Emirati Arabi Uniti, Cina, Russia, Serbia: davvero da moltissimi paesi». Uno dei nodi critici è che «si registra un flusso notevole di armi e munizioni di piccolo calibro, le più usate sul campo di battaglia, che vengono spesso vendute a uso civile».

Insidie che rendono il monitoraggio dei traffici ancora più complessi. E c’è di più. «Dal 2020 al 2023, la Turchia ha esportato in Sudan 240mila pistole a salve e 26 milioni di proiettili a salve. Una volta in loco, vengono facilmente riconvertite in armi letali».

L’atto pubblico 

Arricchiti da tutte queste testimonianze, i movimenti si sono recati a piazza Isolo. Raccolti attorno a un simbolo della pace disegnato con delle candele, decine di persone si sono confrontate sul Sudan e sul tema della pace. È emersa la necessità di fare di più per poter raggiungere un numero sempre crescente di persone.

Ma anche la necessità di riaffermare con forza la voglia di pace che ci unisce. Approfittare di ogni momento utile per farlo, consapevoli che misure promosse dall’attuale governo come il ddl sicurezza all’esame del Senato vorrebbero comprimere questi spazi.

Qualcosa, è emerso dalla piazza, che non può essere permesso perchè mina nel profondo il senso della nostra democrazia. Contro il ddl è stata organizzata a Roma una grande manifestazione nazionale per sabato 14 dicembre. 

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