Il 30 settembre scorso la Corte di giustizia dell’Africa orientale (Eacj), che ha sede ad Arusha, in Tanzania, si è pronunciata contro il ricorso presentato dai maasai che si oppongono alla decisione del governo tanzaniano di sloggiarli dai loro villaggi che sono stati inseriti in una riserva di caccia protetta, parte di un piano di sviluppo turistico della zona, che si trova tra il parco del Serengeti e il cratere di Ngorongoro. La decisione governativa interessa almeno 70mila persone.
Il giudizio era atteso dal 2018, quando il tribunale aveva ordinato di sospendere lo sfratto fino alla sentenza definitiva.
I giudici avrebbero dovuto pronunciarsi lo scorso giugno, ma il dibattimento è stato rimandato di alcuni mesi a causa dei fatti di Loliondo avvenuti all’inizio dello stesso mese. In quell’occasione, come altre volte in precedenza – Nigrizia lo denunciava già nel 2015 -, la polizia aveva usato la forza per convincere la popolazione masaai a lasciare le proprie case e le proprie terre. I video e le testimonianze delle violenze avevano fatto il giro del mondo. Negli scontri c’era stata anche una vittima tra le forze dell’ordine.
#Turismo e conservazione: i motivi per cui i #Masai vengono colpiti con armi da fuoco, costretti a lasciare la loro terra e maltrattati in questo momento in #Tanzania.#WorldTourismDay #27settembre
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Da giugno, secondo le organizzazioni di difesa dei diritti umani e dei popoli indigeni, gli abusi, se non le violenze, sono continuati, secondo una strategia consolidata che consiste nel privare le comunità interessate dei servizi di base quali educazione e sanità, fino ad impedire loro l’accesso alle fonti d’acqua.
Secondo la Corte di giustizia dell’Africa orientale, i maasai, che sono difesi da legali della Unione panafricana degli avvocati (Pan African Lawyers Union – Palu), non hanno presentato prove di essere stati espulsi forzatamente da villaggi che sono al di fuori del territorio del parco nazionale, ma solo da quelli all’interno dei suoi confini.
Vale a dire che, secondo quei giudici, il diritto alla terra non vale nel caso che questa si trovi in zona protetta, prendendo di fatto le parti del governo che giustifica il suo provvedimento di espulsione con il dovere di proteggere l’ambiente, messo a rischio dall’aumento della popolazione indigena, per di più in una zona ad alto potenziale turistico.
I maasai e gli avvocati che ne difendolo la causa si sono detti del tutto insoddisfatti dalla sentenza e hanno annunciato che faranno ricorso in appello.
Si dicono preoccupate anche le associazioni che difendono i diritti delle popolazioni native. Fiore Longo, di Survival International, ha dichiarato: «La corte ha dato un forte segnale alla comunità internazionale: spostamenti forzati e violazioni dei diritti umani dei popoli indigeni devono essere tollerate se sono fatte per proteggere la natura».
Ѐ naturalmente un segnale negativo che rischia di fare da esempio, almeno nella regione, in altri numerosi casi di diritto alla terra negato a popolazioni native e a comunità che risiedono in territori appetibili per scopi turistici.
La Corte di giustizia dell’Africa orientale – nata nel 2001 per volontà dei paesi della regione che ne nominano i giudici – si propone infatti, tra l’altro, di contribuire all’integrazione regionale anche dal punto di vista legislativo.
La sentenza, però, non è ancora definitiva e potrebbe essere rovesciata in appello. Aiuterebbe certamente una mobilitazione internazionale che riuscisse a mettere in discussione il paradigma sulla protezione ambientale ora vigente e considerasse le comunità native non come un pericolo ma come parte del sistema da proteggere e conservare.