Tanzania: intervista all'avvocata che si batte contro i matrimoni precoci
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Intervista a Rebeca Gyumi
Tanzania: l’avvocata che vuole mandare a rotoli il matrimonio precoce
Grazie alla sua battaglia, l’Alta Corte ha dichiarato incostituzionali gli articoli di legge che stabiliscono l’età minima per sposarsi a 18 anni per i maschi e a 14 per le donne. Ma il parlamento deve ancora recepire quella sentenza. E i matrimoni precoci raddoppiano nel paese: 800mila le spose bambine
31 Agosto 2022
Articolo di Antonella Sinopoli (da Dar es Salaam)
Tempo di lettura 6 minuti

Negoziare il proprio ruolo nella società. E fare in modo che tutte le donne, a partire da quelle più giovani, possano farlo. Possano avere il diritto di scegliere.

È la rotta che ha mosso una giovane donna tanzaniana, Rebeca Gyumi, oggi 35enne, avvocata e attivista per l’uguaglianza di genere. Nel 2017 Rebeca si appellò all’Alta Corte del suo paese contestando la costituzionalità della legge sul matrimonio (che risale al 1971) che stabilisce l’età minima per contrarre matrimonio a 18 anni per i maschi e a 14 per le donne. Erano in tanti a dissuaderla, a chiederle «come puoi sfidare lo stato».

Premio per i diritti umani

Eppure quella battaglia fu vinta. E le valse anche un premio dell’Onu, nel 2018, per i diritti umani. Nel 2019 gli articoli 13 e 17 di quella legge furono dichiarati incostituzionali e l’Alta Corte stabilì che il governo dovesse, nell’arco di un anno, eseguirne le disposizioni ed emendare la legge. Una legge discriminatoria e dannosa. Di fatto ancora in corso, se è vero che anche quest’anno i matrimoni precoci sono raddoppiati in Tanzania.

 

«Certo ora abbiamo stabilito un precedente», afferma Rebeca. «Ma l’obiettivo non è ancora raggiunto, anche perché in assenza degli emendamenti richiesti con la sentenza della Corte, non può esservi giudizio, non può esservi una pena».

Rebeca ci accoglie nella sede di Dar es Salaam della ong da lei fondata, Msichana (ragazza in swahili) Initiative. Quasi tutte donne nello staff, anche in altri uffici, tra i quali uno nella capitale, Dodoma. E poi ci sono quelle reti – ancora più importanti perché diffuse nei territori, soprattutto nelle aree rurali: i Msichana cafes, ambienti di incontro per le giovani, di scambio di idee, di presa di coscienza del proprio valore: e i Msichana Amani clubs che lavorano nelle scuole affinché i ragazzi e le ragazze si confrontino sul tema dell’equità di genere, sui diritti degli uomini come delle donne. Perché questo è l’obiettivo: modificare l’approccio alle relazioni tra generi su un doppio canale: quello culturale e quello legislativo.

Una iniziativa in una classe tanzaniana organizzata dall’ong Msichana

Tra i più alti tassi di matrimoni precoci

La Tanzania ha tra i più alti tassi di matrimoni precoci di tutta l’Africa, con una media di due ragazze su cinque che si sposano (meglio, vengono fatte sposare) prima dei 18 anni. La percentuale più alta si ha nelle zone rurali: il 37% delle donne tra i 15 e i 49 anni delle aree rurali si sono sposate bambine o appena adolescenti; il 21% nelle aree urbane.

Ma attenzione – ci invita a riflettere Rebeca Gyumi – «la povertà è un aspetto, certo, ma a essere più forte è la cultura patriarcale. Se fosse una questione legata esclusivamente al bisogno, la famiglia si “libererebbe” anche dei figli maschi che non riesce a mantenere. Invece, accade solo per le ragazze».

Ragazze “vendute”

È quasi una vendita quella che avviene, visto che dare in sposa la propria figlia significa ricevere una “dote” in denaro, o in animali o in generi alimentari da parte dello sposo. «Per le giovani spose i danni sono innumerevoli e spesso fatali. Un’esperienza traumatica che lascerà per sempre il segno», afferma Rebeca. «Non sono preparate né dal punto di vista psicologico né fisico ad affrontare una vita matrimoniale. Queste ragazze vengono di fatto stuprate e picchiate da mariti che spesso sono molto più vecchi del loro stesso padre. E sono molti i rischi per la loro salute».

Addio al percorso scolastico

Inutile dire che queste ragazze non andranno mai più a scuola. Secondo dati forniti da statistiche nazionali, il 99% delle ragazze sposate tra i 15 e i 19 anni non frequentano la scuola. «Ciò significa che queste ragazze non esprimeranno mai il loro potenziale e che tutto il male a cui vengono sottoposte si perpetuerà sui figli che, di fatto, non sanno come crescere, come accudire e che, se sono femmine, finiranno per subire la stessa sorte».

Oggi le spose bambine in Tanzania sono circa 800mila. La rete messa in piedi dalla giovane avvocata – che oggi riesce a sostenersi con fondi di agenzie estere, ma anche con donatori interni – agisce anche come rifugio per quelle giovani che chiedono assistenza e che spesso sono collocate in istituti religiosi con cui la ong ha stretto accordi di collaborazione.

Serve subito una legge

Ma non si può perdere tempo. Una legge che inverta questo ciclo di dolore e discriminazione è indispensabile. «Il parlamento è chiamato a legiferare in materia applicando quanto stabilito dalla Corte», ricorda l’attivista, ma di fatto si sta prendendo (e perdendo) tempo.

L’ultima proposta è stata quella di consultare i leader delle comunità locali. Proposta appoggiata in special modo dagli esponenti musulmani del mondo politico tanzaniano. «Non è altro che una distrazione», sostiene l’avvocata. «La Corte, infatti, è stata chiara e mettere in atto la sua decisione è un obbligo per il parlamento. Ora abbiamo due strade: tornare alla Corte per “forzare” la messa in atto di quanto stabilito dalla Corte stessa o quella della diplomazia e dell’advocacy. Ed è in realtà questa che stiamo percorrendo con contatti continui con la commissione del Welfare e con il ministero degli affari legali e costituzionali».

Speranze con la nuova presidente Suhulu Hassan

Ricordando il precedente presidente John Magufuli che aveva vietato alle ragazze rimaste incinta di proseguire la scuola, chiediamo a Rebeca cosa sia cambiato ora che al vertice dello stato c’è una donna, Samia Sulhulu Hassan. «Credo che questo sia il migliore contesto per operare un cambiamento, ma non voglio essere ingenua e pensare che solo perché abbiamo una donna presidente le cose saranno offerte su un piatto d’argento». «Bisogna tenere a mente – continua Rebeca – che quando si parla di empowerment delle donne, di protezione e persino di economia bisogna partire dall’assicurare davvero il diritto di scelta delle donne. Oggi quella legge del 1971 che discrimina così tanto tra ragazzi e ragazzi e su cui, ripeto si è pronunciata l’Alta Corte dà un grande potere ai genitori della ragazza, al padre in particolare, togliendo alla giovane qualsiasi voce in capitolo in una decisione che cambierà per sempre la loro esistenza».

Quello su cui l’attivista è chiara è proprio l’aspetto del diritto: «Questo è un tema che non può essere delegato al presidente, uomo o donna che sia. È una questione assai ampia su cui si determina lo stato di diritto in questo paese e su cui si gioca la separazione dei poteri dello stato e l’indipendenza dell’organo giudiziario».

Rebeca Gyumi crede alla forza della legge: «Io stessa ho esercitato un diritto costituzionale quando mi sono appellata alla Corte». È interessante che a permetterle di studiare sia stata un’intera comunità, non solo genitori e parenti. «In me hanno visto un potenziale e così mi hanno sostenuta fino all’Università». Poi ha chiesto un prestito allo stato (cosa non insolita in questo paese) e ora lo sta pagando, con una trattenuta del 5% sul salario. Qualche volta, confessa, si sente stanca: «Mi lamento con mia madre e dico che andrò a lavorare la terra. Ma lei mi ferma e risponde: vai avanti, non era questo il tuo obiettivo? Non è questo quello che hai sempre voluto fare?».

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