La testimonianza da Port Sudan: «Il paese è lacerato»
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Padre Marrone, missionario comboniano, parla con Nigrizia: «La situazione qui è più stabile mentre a Khartoum montano i combattimenti»
La testimonianza da Port Sudan: «Il paese è ferito, non sa immaginare la pace»
Speranze dall'impegno della Chiesa locale: «Al fianco dei più deboli nonostante le difficoltà»
09 Ottobre 2024
Articolo di Brando Ricci
Tempo di lettura 6 minuti
Port Sudan. Foto da Wikimedia Commons

Come rimargineranno, le profonde ferite che stanno dividendo la società sudanese con una violenza disarmante? È anche solo possibile immaginare la pace in un paese dove si stanno creando le condizioni per anni e anni di nuovi rancori e violenze?

Padre Salvatore Marrone, missionario comboniano che vive nel paese saheliano dal 1989, se lo chiede da Port Sudan, la strategica città sulla costa del Mar Rosso dove il governo militare ha riparato dopo la sostanziale presa della capitale Khartoum da parte delle Forze di supporto rapido (RSF).

L’esercito regolare e la milizia, un tempo alleate, si combattono dall’aprile 2023 e combattendosi hanno fatto scivolare il Sudan in quella che è ritenuta a oggi la peggior crisi umanitaria del pianeta.

Dall’inizio delle ostilità le persone che hanno dovuto lasciare le loro case e che si sono rifugiate in altre aree del paese sono più di 8 milioni su una popolazione complessiva di quasi 47 milioni di abitanti. In 2,3 milioni hanno cercato rifugio oltre confine. Secondo il Programma alimentare (PAM) sono poi 25 milioni le persone che vivono una condizione di insicurezza alimentare acuta mentre addirittura 13 milioni rischiano di subire condizioni di carestia nei prossimi mesi.

Via da Omdurman

Nonostante a Port Sudan «non ci siano praticamente stati combattimenti e la situazione sia stabile al punto che scuole e ospedali possono funzionare normalmente», la pace sembra lontanissima per padre Marrone. Il religioso è ancora formalmente parroco di Omdurman, grande città gemella di Khartoum da cui il prelato è dovuto andare via in fretta e furia una mattina del maggio 2023, poche ore prima che gli uomini delle RFS attaccassero anche la casa provinciale dei comboniani così come avevano fatto con altri edifici religiosi e civili.

«Le possibilità che si arrivi alla fine della guerra con il dialogo non si vedono – denuncia il missionario – l’idea che abbiamo ora è che le ostilità potranno concludersi solo quando una parte in campo avrà la meglio sull’altra».

Le parole del missionario giungono mentre l’ultimo tentativo di dialogo a mediazione statunitense è naufragato in Svizzera, riuscendo a produrre però la riapertura di alcuni corridoi per gli aiuti umanitari. Nel frattempo, due settimane fa le Forze armate sudanesi agli ordini del presidente de facto Abdelfattah al-Burhan hanno lanciato una nuova contro offensiva fa per riprendersi la capitale.

«Da quello che sappiamo – riferisce padre Marrone – l’esercito regolare è riuscito a guadagnare il controllo di alcune aree della città e intanto sta cercando di tagliare le vie di approvvigionamento alle RSF. Le due parti stanno ammassando truppe e mezzi in vista di una resa dei conti per il controllo di Khartoum». Si continua a combattere anche in numerosi altri stati del paese, dal Darfur a ovest fino a Sennar e Nilo azzurro a sud-est.

Al-Burhan e Hemeti hanno iniziato a confrontarsi per il controllo del paese dopo aver a lungo condiviso il potere. Anche all’interno del governo nato dal golpe dell’ottobre 2021, quando le forze armate hanno messo fine a un esecutivo misto a guida militare e civile che era nato dopo la caduta del trentennale regime dell’ex presidente Omar al-Bashir. Con quell’esperienza è finita anche la transizione verso la democrazia verso cui il Sudan si era instradato fra molte difficoltà, anche con un nuovo coinvolgimento della società civile.

Il seme della guerra 

«La faglia che divide RSF e Forze armate attraversa ora le varie comunità del paese», spiega il missionario. «Entrambe le parti belligeranti sono accusate di compiere arresti sommari di persone ritenute vicine o affiliate alla compagine rivale quando conquistano o riprendono il controllo di una città. In molti decidono di fuggire ancora prima che questo possa avvenire, temendo ripercussioni». 

Il problema, per padre Marrone, è soprattutto questo, in modo particolare in un paese che è già stato attraversato da fasi di acuta violenza intercomunitaria e dove, a inizio del millennio, le milizie arabe delle Janjaweed, di cui le RSF sono eredi dirette, hanno condotto operazioni genocidarie contro le comunità non arabe del Darfur per conto dell’allora governo del presidente a-Bashir.

«Questa è una guerra fratricida è quello che vediamo profilarsi davanti a noi è uno scenario che potrà essere sanato solo con un lungo e complesso percorso di cura e riconciliazione», avverte il missionario da Port Sudan. Entrambe le parti in conflitto sono state accusate di aver commesso violenze. Ciò detto, ammette padre Marrone, «le persone con cui abbiamo contatti gioiscono quando le forze armate regolari riprendono il controllo della loro città, dove spesso deve essere ricostruito da capo tutto».

Port Sudan, come detto, non è stata a oggi toccata dai combattimenti più intensi ed è anche per questo che centinaia di migliaia di queste persone sfollate vi sono confluite da varie regioni dopo ave dovuto lasciare le loro case per colpa dei combattimenti.

Nella regione, secondo l’ultimo aggiornamento dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (OIM), vivono circa 260mila sfollati interni a causa del conflitto scoppiato nell’aprile 2023.

«Qui – riporta padre Marrone – la situazione è molto più stabile che nella maggior parte delle altre aree del paese. Quasi tutte le persone sfollate vivono in campi gestiti dalle agenzie delle Nazioni Unite a cui noi non abbiamo accesso se non per poter dare assistenza spirituale. Noi come comboniani – specifica il missionario – stiamo portando sostengo alle tante persone che sono dirette verso l’Egitto. Non li aiutiamo nel loro viaggio ma forniamo una pausa di ristoro per chi si trova lungo questa rotta, come una sorta di oasi».

L’impegno della Chiesa locale 

Lo scenario è molto fosco, alcune immagini lo rendono evidente più di altre. «Il primo ottobre qui in Sudan celebriamo la giornata della “santa infanzia”, dedicata ai bambini – spiega padre Marrone – mi hanno mandato delle foto di quest’anno, avevo ricordo dei tanti volti sorridenti, pieni di entusiasmo: i bambini hanno perso quei sorrisi, un anno e mezzo di combattimenti sono un trauma con ramificazioni profonde».

Eppure, anche in una situazione così complessa, ci sono note di speranza. «Una fonte di forza per noi viene dal vedere l’impegno della Chiesa locale, con i suoi vescovi e sacerdoti», dice il missionario in riferimento alla comunità cattolica che nel Sudan a stragrande maggioranza musulmano rappresenta circa il 5,5% della popolazione.

Il religioso continua: «Nonostante le grandi difficoltà, c’è uno spirito incredibile e ovunque ci si dà da fare. Anche il nostro lavoro va capito nel contesto della Chiesa sudanese, ne siamo parte. E questa sta dando una prova di grande sostegno alla popolazione».

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