La 47ª edizione del Toronto International Film Festival (8-18 settembre) ha presentato una interessante selezione di film di registi africani o afrodiscendenti che confermano alcune tendenze: la new wave di registe francesi di origine senegalese (Alice Diop, Maimouna Doucouré che affiancano Mati Diop), il successo del genere etno-horror e il definitivo smarcarsi della Nigeria dal monopolio di Nollywood.
The King’s Horseman l’ultimo film di Biyi Bandele (Half of a Yellow Sun, The Blood Sisters), targato Netflix ed Ebony Life è l’adattamento della pièce teatrale anti colonialista, Death and the King’s Horseman (1975) di Wole Soyinka, lo scrittore premio Nobel al quale il Festival ha dedicato la proiezione del film. Nonostante il testo originale, basato su fatti storici avvenuti durante il dominio britannico, sia stato scritto in inglese il regista ha insistito per una traduzione in yoruba. Purtroppo lo stile di Bandele, molto televisivo e piatto, non rende giustizia alla genialità del drammaturgo nigeriano.
È invece una regista americana, Gina Prince-Bythewood, a celebrare con The Woman King l’esercito tutto al femminile delle Agoje, le famose amazzoni del Dahomey che combatterono per difendere il loro Regno dall’attacco dei vicini e dei colonizzatori europei nonché dagli orrori del traffico degli schiavi. La storia si svolge nel 1823 e racconta di Nawi, giovane aspirante guerriera, e di Nanisca carismatica leader interpretata dall’attrice premio Oscar Viola Davis. Innegabile l’eredità di Black Panther che aveva già omaggiato le Amazzoni e che sembra aver fatto da apripista per un nuovo genere epico africano e femminista.
Dagli Stati Uniti anche l’interessante Nanny, lungometraggio d’esordio di Nikyatu Jusu, regista originaria della Sierra Leone già apprezzata per il cortometraggio Suicide by Sunlight, storia di una black vampire. In questo nuovo film Aisha, giovane senegalese da poco arrivata a New York, in attesa di essere raggiunta dal figlio lavora come baby sitter presso una ricca famiglia. Perseguitata da incubi notturni e inquietanti visioni di Mami Wata, che qui rappresenta il lato oscuro del Sogno Americano, Aisha, evoca il personaggio di Dounia, la protagonista de La Noire de… di Sembène Ousmane.
Sguardo adolescente
Dall’horror passiamo alla fantascienza de La Gravité secondo lungometraggio dell’attore franco-burkinabè Cédric Ido che racconta la banlieu francese attraverso le lenti distopiche di un misterioso fenomeno cosmico che sconvolge la gravità e la vita degli abitanti del sobborgo di Stains.
Una commedia alla Frank Capra è stata invece definita Hawa della regista francese di origine senegalese Maïmouna Doucouré già autrice del contestato Cutie. Quindici anni, fiera, determinata e incurante dei convenevoli sociali Hawa è stata cresciuta dalla nonna (interpretata dalla cantante maliana Oumou Sangaré) che però è in fin di vita. Alla ragazza non resta che trovare la perfetta madre adottiva e la scelta cade nondimeno su Michelle Obama in visita a Parigi. Il disincantato sguardo di Hawa sul mondo si alterna con quello della regista che ritrae con grande delicatezza l’audace rivendicazione di un’adolescente alla ricerca di una casa e di una esistenza dignitosa.
Dal Kenya Shimoni, il primo lungometraggio della regista Angela Wanjiki Wamai, un dramma dal ritmo teso, duro e al tempo stesso intimo. Geoffry, ex insegnante di inglese, dopo aver scontato sette anni di prigione per omicidio torna nel suo villaggio per rifugiarsi nel compound della Chiesa cattolica. Ma un giorno si convince di aver incontrato l’uomo che da anni popola i suoi incubi e paralizzato dalla paura si rinchiude sempre più in sé stesso.
Sempre dal Kenya, il documentario Free Money di Sam Soko e Lauren DeFilippo è il fedele resoconto delle conseguenze, volute o non previste, di un progetto di sussidiarietà proposto agli abitanti del villaggio di Kogutu da una ong americana. Per tre anni i registi hanno messo a confronto le grandi idee partorite negli uffici di Manhattan con le vite degli abitanti del villaggio. Il risultato è un impietoso ritratto del fallimento di un sistema di cooperazione internazionale ormai obsoleto.
Dal Sudafrica arriva The Umbrella Men di John Barker che passa con grande sicurezza dalla commedia al crime, cavalcando il ritmo del Cape Town Minstrel Carnival. Infine William Kentridge si racconta in Self-Portrait As A Coffee Pot : una finestra sul complesso e affascinante processo creativo di un artista che racconta la complessità del suo paese con grande raffinatezza senza rinunciare a un acuto sguardo politico .