Sono passati oltre sessant’anni, ma il modo di ragionare della classe politica di questo paese sulla necessità di lavoratrici e lavoratori stranieri e sulla loro regolarizzazione non è cambiato. Perché se è vero che la pianificazione degli ingressi degli immigrati nasce ufficialmente nel 1998 con il primo decreto flussi, è anche vero che il sistema di regolarizzazione degli accessi dei lavoratori stranieri risale ai primi anni ’60.
Anni in cui l’Italia è ancora più un paese di emigrazione che immigrazione, ma già sono presenti nello stivale delle avanguardie pioniere di un fenomeno migratorio destinato ad aumentare di numero e a determinare delle vere e proprie sostituzioni tra autoctoni e stranieri in determinati ambiti occupazionali.
Uno fra tutti, quello delle collaboratrici domestiche e familiari, allora principalmente etiopiche, filippine e capoverdiane che, dalla prima ricerca Api Colf del 1976, risultano essere, rispettivamente 12mila, 7mila e 6mila. Poche migliaia, vero, ma già capaci di diffondere l’utilizzo di un termine che diventerà sinonimo di un’occupazione: “filippina”=“donna di servizio”.
Inizia in questo tempo una modalità protezionistica e di contenimento dei flussi da parte dei governi che prevede che lo straniero stipuli un contratto con il datore di lavoro ancor prima della sua partenza, e che questo contratto debba sottostare a due step: il nullaosta penale della questura e l’autorizzazione all’occupazione da parte dell’ufficio provinciale del lavoro, che dovrà prima vagliare l’indisponibilità di manodopera italiana a quella richiesta.
Nonostante la procedura della regolarizzazione a chiamata risulti fittizia già negli anni Sessanta (la persona straniera spesso si trovava già in Italia e il datore di lavoro l’aveva già fatta lavorare, ndr), la modalità è destinata a perdurare e a segnare gli anni avvenire fino a oggi. Fino a questo dicembre 2021, in cui dovrebbe essere varato l’ennesimo “decreto flussi” che regolerà 81mila persone, scostandosi nettamente dal blocco dei 30.850 ingressi degli ultimi sei anni.
Con la cancellazione del decreto del 2018 dell’ex ministro dell’interno Salvini, infatti, è di fatto saltato quel vincolo che non teneva conto delle necessità di manodopera, ma intendeva calmierare il numero degli ingressi per meri fini elettorali, obbligando i governi a non superare la quota prevista nell’anno precedente.
Un decreto insufficiente
Il decreto flussi 2022 sforerà dunque i 30mila ingressi, senza arrivare ai dati del 2010, quando furono quasi 100mila le persone regolarizzate tramite la pianificazione dei flussi.
Per decreto, verranno stabilite quote (45mila per lavoro stagionale, 30mila subordinato, cui si aggiungerà l’autonomo) e tipologie di lavoratori senza che, ancora una volta, si tenga conto di alcuni dati oggettivi: quello dell’Istat che stimava, ancora a fine settembre, 400mila posti di lavoro vacanti, e il recente studio di WeBuild, la prima azienda del settore costruzioni in Italia che, qualche settimana fa, lanciava l’allarme che, per spendere i 200 milioni stanziati dal Recovery fund, e far così partire le grandi opere previste, mancano 90mila figure di operai per i cantieri e 10mila qualifiche superiori.
A sottolineare il fallimento di questo tipo di approccio, caratterizzato ancora una volta da una rincorsa emergenziale a rispondere a una richiesta di lavoro che rimane disattesa nella sua complessità, è la realtà che viene descritta da chi continua a occuparsi di lavoro irregolare. Come l’Osservatorio Placido Rizzotto e la Caritas che, quest’estate, denunciavano 180mila vittime del caporalato, su oltre 2,6 milioni di lavoratori irregolari.
Una manovalanza sfruttata, che vale un totale di 79 miliardi di euro, proprio in quel settore agricolo cui spetta la maglia nera dell’economia illegale italiana, e dove, secondo l’Annuario dell’agroalimentare italiano curato dal Crea (il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria), nel 2020 i lavoratori stranieri rappresentavano il 18,5% del totale dei lavoratori agricoli.
A tutti questi dati si aggiunge, non ultima, la sanatoria dell’estate 2020, di cui tanto abbiamo scritto, che, a metà dicembre, secondo le stime della campagna Ero straniero, aveva sanato solo il 26% delle 230mila domande presentate per la regolarizzazione. Consegnando appena 60mila permessi di lavoro.
Numeri che si sommano a coloro che nella sanatoria non erano riusciti a entrare: si stima che il numero delle persone che svolgono lavoro irregolare, senza permesso di soggiorno, oscillerebbe tra le 300 e 600mila unità. Ed è proprio questa loro irregolarità a renderle vittime di sfruttamento. Occorre, come si afferma oramai da anni, provvedere a canali legali di ingresso e a dar vita a una seria lotta per l’emersione e contro il caporalato.