Mentre le elezioni legislative del 17 dicembre sono ormai alle porte, in Tunisia sindacati e associazioni della società civile stanno moltiplicando gli allarmi sul deteriorarsi della libertà di stampa. A preoccupare le organizzazioni sono alcune misure messe in atto sotto la presidenza di Kais Saied, che rischierebbero di porre un freno alla libertà di espressione, la più importante conquista ottenuta con la rivoluzione che nel 2011 rovesciò il regime di Zine El-Abidine Ben Ali.
Nel mirino dei critici c’è il decreto 54, contro il quale, giovedì scorso, è stata lanciata una campagna voluta dal sindacato dei giornalisti (Snjt) insieme all’Ugtt, il sindacato unico tunisino, all’Ordine degli avvocati, alla Federazione tunisina dei direttori di giornali e alla Lega tunisina per i diritti umani.
Il decreto 54, approvato lo scorso 22 settembre, punisce chiunque «utilizzi consapevolmente reti di informazione e comunicazione con lo scopo di produrre, diffondere, inviare o redigere false notizie, falsi dati, rumors, documenti falsi o falsificati o falsamente attribuiti ad altri con lo scopo di attentare ai diritti altrui o di pregiudicare la sicurezza pubblica e la difesa nazionale, o di seminare il terrore nella popolazione».
La pena massima, che può essere raddoppiata per chi riveste una carica pubblica, è di cinque anni di reclusione, mentre le sanzioni possono arrivare fino a cinquantamila dinari tunisini (circa quindicimila euro). In polemica con il decreto 54 e altre restrizioni imposte dalle autorità, la redazione del giornale on-line Business News ha annunciato il boicottaggio delle elezioni, che seguirà solo diffondendo comunicati stampa accompagnati dalla dicitura “propaganda”.
«Il problema, però, non è solo il decreto», spiega a Nigrizia Yassine Jelassi, presidente del sindacato dei giornalisti tunisini. A questo si aggiunge infatti la circolare del 19 dicembre 2021, che proibisce a ministri, segretari di stato e funzionari, di parlare ai media senza un’autorizzazione preventiva del primo ministro. «Così si crea un blackout dell’informazione» denuncia il giornalista, che punta il dito anche contro la legge antiterrorismo e i tribunali militari. In effetti, le corti militari continuano di tanto in tanto a colpire civili e professionisti dell’informazione.
Bavaglio anche alla stampa straniera
Alla fine di novembre, il cronista Khalifa Guesmi è stato condannato in primo grado a un anno di reclusione, in base alla legge antiterrorismo, dopo essere stato arrestato a marzo per aver protetto le fonti che gli avevano consentito di ricostruire lo smantellamento di una cellula terroristica per la radio Mosaique FM. Altri due suoi colleghi, Amer Ayad e Salah Attia, sono stati giudicati e condannati da tribunali militari per le loro affermazioni. Ad aprile un’altra operatrice dell’informazione, Chahrazed Akacha, è stata messa in detenzione preventiva per un giorno a causa di alcuni post su Facebook.
La settimana scorsa, anche l’Associazione dei corrispondenti esteri in Nordafrica (Nafcc) ha denunciato difficoltà nel lavorare in Tunisia, in particolare sulle elezioni. «Ci siamo trovati davanti al rifiuto da parte di diversi candidati di apparire pubblicamente sulla stampa straniera – si legge in un comunicato – in nome del principio della par condicio tra i candidati e di presunti favoritismi», scrive l’organizzazione in una nota.
Nelle indicazioni dell’Istanza superiore indipendente per le elezioni (Isie), l’organismo che dal 2011 è preposto all’organizzazione degli scrutini, si legge in effetti che «ai candidati alle elezioni legislative presenti sul suolo tunisino è proibito utilizzare la stampa straniera». Una restrizione simile nei confronti dei corrispondenti esteri era già stata imposta durante le legislative del 2019.
E genera malumore anche la richiesta dell’Isie di scegliere i candidati da intervistare tramite sorteggio. Secondo l’organismo, questo metodo rappresenterebbe l’unico strumento per garantire un servizio imparziale, ma i giornalisti dell’Nafcc lo qualificano come «irrealizzabile».
«Il sorteggio è una questione tecnica – commenta Jelassi– il problema vero è l’atmosfera generale. Non ci possono essere elezioni libere in un clima repressivo, con processi contro i giornalisti, con una situazione economica e condizioni di lavoro pessime».