Dal 1° gennaio al 15 ottobre del 2021, secondo i dati forniti dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, sono state 2.226 le persone immigrate rimpatriate nei propri paesi d’origine. Tra queste, più della metà, 1.159, era di nazionalità tunisina. La maggior parte dei 71 voli charter partiti dall’Italia infatti, sono atterrati nel paese nord africano: su 1.326 passeggeri che hanno volato sugli aerei non di linea, destinati ai rimpatri, 1.105 erano tunisini.
Ma la Tunisia può considerarsi un “paese di origine sicuro” dove rimpatriare – come sta avvenendo, in base anche agli accordi da 8 milioni di euro firmati tra i due paesi – gli immigrati che arrivano in Italia? Stando all’ultimo report “Superare il mito della sicurezza in Tunisia”, redatto da Avvocati senza frontiere Tunisia (Avocats Sans Frontieres Tunsie), Forum tunisino dei diritti economici e sociali (Forum tunisien des droits économiques et sociaux – Ftdes) e Medici del mondo (Medecins du monde), e diffuso in Italia da Asgi, parrebbe proprio di no.
La definizione di “paese di origine sicuro”, adottata per accelerare più che le domande di asilo, la possibilità di rigettarle (sempre che venga dato il tempo di inoltrarle) e rimpatriare i richiedenti, fa riferimento non solo a ciò che il senso comune immagina: assenza di torture, violenze e guerre; ma anche a tutti quei diritti e libertà che vengono riconosciuti dalla Convenzione europea.
Sicuro per chi?
Un riconoscimento non da poco, se si tiene conto del fatto che provenire o meno da un paese considerato sicuro, fa sì che si venga inseriti o esclusi dentro lo status di diritto alla protezione internazionale.
Una condizione che, ricordiamo, fa riferimento a colui o colei che “per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha cittadinanza (o dimora abituale – nel caso di soggetti apolidi) e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese”.
Ma esiste libertà e protezione in questo paese? Come si giustifica il fatto che la Tunisia sia “paese di origine sicuro” per l’Italia, ma non per Francia, Belgio, Germania e Inghilterra? Il fatto che, dal 2019, un terzo dei migranti approdati lungo le coste dello stivale sia di origine tunisina, nazionalità maggioritaria tra gli sbarchi del 2021 (al 31 dicembre, su 67.040, il 23%, cioè 15.671, dichiarava la Tunisia come paese di provenienza), ha condizionato l’accoglimento di tale dicitura?
Visto che è proprio questa definizione di sicurezza a far sì che si proceda all’esame delle domande di asilo in maniera veloce, basandosi sulla presunzione che il richiedente non fugga da una possibile persecuzione e non abbia dunque diritto allo status di rifugiato e quindi sia facilmente più rimpatriabile?
Tra torture e libertà limitate
A leggere il report, l’iter accelerato, denunciato più volte da varie realtà che si occupano di diritti delle persone migranti, è certo lesivo delle garanzie procedurali fondamentali al diritto d’asilo e concorre a incrementare le espulsioni e i respingimenti verso un paese dichiarato sicuro, nonostante non lo sia.
Non lo è a partire dalle torture e dai trattamenti inumani e degradanti che, Avvocati senza frontiere, il Forum dei diritti economici e sociali e Medici del mondo denunciano come esistenti, nonostante non vi siano delle inchieste affidabili e imparziali che li riportino. Ma, di fatto, il Comitato dei diritti dell’uomo da tempo ha mostrato la propria preoccupazione riguardo ai diversi casi di decessi durante la custodia in prigione e nel corso degli arresti.
A questi, si aggiungono le disposizioni che limitano la libertà di espressione e stampa. Il report segnala un’intolleranza crescente contro coloro che criticano funzionari o istituzioni. Siano blogger o militanti della società civile, o semplici utenti di Facebook. Altrettanto limitata appare la libertà di riunione o associazione, in teoria protetta dalla Costituzione del 2014, con cui la Tunisia post primavera araba doveva darsi un nuovo volto democratico.
Rimane (ed è una delle discriminazioni riconosciute per poter accedere al riconoscimento dello status di rifugiato) la discriminazione contro le persone LGBTQA+ (acronimo che riunisce lesbiche, gay, bisessuali, transgender, intersessuali, queer, asessuali). Nel diritto tunisino infatti le relazioni tra due persone dello stesso sesso sono criminalizzate e punite dal codice penale con una pena che prevede fino a tre anni di reclusione.
Pena più volte applicata, stando ai dati diffusi dal ministero della giustizia: da gennaio 2017 a giugno 2020 infatti, sono circa 95 le persone condannate a rimanere in carcere per aver violato l’articolo 230. Le minoranze sessuali sono poi soggette a carcerazione per attentato al pudore, alla morale e alla decenza pubblica.
Vi è poi il discorso della violenza di genere che rimane contrastata solo sulla carta delle leggi. I dati del ministero delle donne raccontano che almeno il 47% è stata vittima di violenze domestiche nel corso della vita. Quasi una su due. Un dato che, si legge nel report, è aumentato in maniera esponenziale con l’inizio della pandemia.
Alla violenza, come spesso accade, si accompagna una diffusa impunità, oltre alla difficoltà ad accedere al sistema giudiziario: diversi giudici istruttori infatti si oppongono alla legge contro la violenza sulle donne e fanno pressione affinché le vittime ritirino le denunce.
Repressione ai movimenti di protesta
Il fatto che la Tunisia non sia un paese democratico lo dimostra, infine, il trattamento riservato ai movimenti sociali di protesta: lo scorso gennaio sono stati più di 2mila i giovani, per il 30% minorenni, che sono stati arrestati e su cui sono stati diffusi dei dossier in cui si mette in dubbio la loro reputazione e li si accusa di violenza e disubbidienza per delegittimarne l’operato. La polizia, che in questi ultimi anni ha represso diversi movimenti giovanili, ha spesso fatto ricorso a un utilizzo eccessivo della violenza, causando, impunita, la morte di molte persone.
Per tutti questi motivi, le tre organizzazioni firmatarie del report «chiedono al governo italiano di rinunciare alla nozione di “paese di origine sicuro” che ha svuotato l’istituto del diritto di asilo del suo significato sostanziale».