Un altro corpo di un migrante senza vita al confine tra Libia e la Tunisia.
Un altro, l’ennesimo, dopo che la foto di Matyla e Marie, mamma e figlia, immortalate abbracciate, dopo esser morte di sete nel deserto, ha fatto il giro del mondo qualche giorno fa.
Un’immagine divenuta virale, che però non è riuscita a contaminare di umana pietà le politiche europee, quelle che continuano a stringere accordi con la Tunisia, che scambiano denaro per respingimenti, che fingono di farci credere che il paese del presidente Kais Saied sia un “paese sicuro”, come scrivono i patti che esternalizzano le frontiere, prevedendo rimpatri.
E che l’umana pietà si è persa lo dimostra il mezzo di diffusione che le guardie di frontiera libiche hanno ritenuto consono per dare la notizia dell’”immigrato illegale di nazionalità africana, trovato (morto) vicino alla linea di contatto con lo Stato tunisino”, Facebook.
Un social media per diffondere una nota informativa di denuncia: «Le autorità tunisine continuano a deportare centinaia di immigrati ogni giorno verso il confine libico nonostante le ondate di calore nella regione». Il bue che dice cornuto all’asino.
In mezzo al deserto
Intanto la preoccupazione sale. Sono infatti diverse e numerose le testimonianze raccolte dall’agenzia di stampa francese AFP che raccontano di centinaia di persone migranti di origine africana nella zona cuscinetto di Ras Jedir, tra Libia e Tunisia.
Sarebbero circa 140, provenienti (guarda caso) dall’Africa subsahariana, deportati al confine, dove hanno dato vita a un accampamento di fortuna che dista appena trenta metri dalla frontiera libica.
È lì che si trovano, da circa tre settimane, senza acqua né cibo. Tutti sanno. Compresi noi europei. Nessuno interviene.
Tra le voci riportate da AFP, quella di George, nigeriano di 43 anni: «Non sappiamo dove ci troviamo. Stiamo soffrendo qui, senza cibo e acqua. I libici non ci permettono di entrare nel loro territorio e i tunisini ci impediscono di tornare indietro. Siamo bloccati in mezzo a tutto questo. Per favore aiutateci!».
Sempre stando alle testimonianze dell’agenzia francese, ci sarebbero altri due gruppi, di circa un centinaio di persone ciascuno, nella stessa zona di confine libico-tunisina.
Gli appelli
La preoccupazione e l’eco si diffondono. L’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (UNHCR) e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) hanno diffuso un comunicato in cui esprimono apprensione per le sorti di queste persone, richiedenti asilo, rifugiate, che si trovano bloccate in mezzo al nulla.
Uomini e donne (diverse incinte), bambine e bambini, costretti a fuggire da Sfax dopo i disordini di inizio luglio. Dopo la “caccia al nero” iniziata ancora nel 2022.
L’appello di UNHCR e OIM ad assicurare aiuti umanitari e a richiamare la Tunisia arriva in contemporanea all’impantanarsi della tanto sbandierata riforma europea del Patto di migrazione e asilo, in discussione in questi giorni, per l’ennesima volta, a Bruxelles.
Nel momento in cui la presidente Meloni ancora gongolava per la conferenza internazionale ferma-migranti di domenica scorsa e per i fruttuosi viaggi tunisini che avevano portato alla firma del Memorandum d’intesa, si registra un altro stop.
Stop al Patto europeo migrazione e asilo
La riunione degli ambasciatori dei 27 paesi, il Coreper, ieri ha di fatto impedito il passaggio al successivo stadio di negoziato con il parlamento europeo.
Lo ha fatto su un punto controverso che riguarda i regolamenti che prevedono deroghe alle procedure di frontiera e/o l’interruzione dei trasferimenti delle persone migranti verso gli stati di primo approdo, secondo il trattato di Dublino.
Un punto non banale neanche per l’Italia, paese di sbarco e arrivo per molti.
La Germania, preoccupata per il potenziale impatto negativo sui diritti delle persone in cerca di protezione in Europa, ha deciso di astenersi.
Il solito gruppo Visegrad, e cioè Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, insieme all’Austria, ha votato contro.
Da qui la necessità, per presidenza spagnola, di riprendere il filo della complicata matassa dell’accordo e cercare di trovare un nuovo, mai facile, compromesso.
Non si offenda la Tunisia!
Ad aggiungere carne sul fuoco, il ministro dell’interno tunisino, Kamel Feki, che, durante la risposta a un’interrogazione parlamentare, ha sottolineato come non si possa accettare che la Tunisia «diventi un paese di transito o di insediamento».
Perché «la società tunisina ha una capacità limitata di accettare l’integrazione di migranti provenienti dai paesi subsahariani».
Giusto per ribadire quel che è già sotto gli occhi di tutti da mesi nei confronti delle persone africane nere.
Feki non ha solo ribadito la difficoltà «del popolo tunisino di integrarli», ma anche di «farli tornare volontariamente nei propri paesi nel pieno rispetto dei diritti umani e dei protocolli internazionali».
Salvo poi affermare che la Tunisia «non accetterà alcun comportamento disumano che offenda l’immagine del paese». Commentare appare superfluo.
C’è solo da aggiungere un’ulteriore notizia, diffusa il 26 luglio scorso dallo stesso Feki: dal primo di gennaio al 20 di luglio la guardia costiera tunisina ha recuperato 901 corpi di migranti annegati al largo delle sue coste.