Con una mossa a sorpresa arrivata intorno alla mezzanotte del 1 agosto, il presidente Kais Saied ha licenziato la prima ministra Najla Bouden, prima donna a guidare un governo in Tunisia.
Subito dopo Saied ha nominato al suo posto Ahmed Hachani, ex alto dirigente della Banca Centrale e figura sconosciuta al mondo della politica tunisina.
Il nuovo premier ha subito prestato giuramento.
Nessuna spiegazione è stata data dalla presidenza per la repentina sostituzione, ma i media tunisini ipotizzano che Saied tema il ripetersi delle rivolte per il pane che provocarono 150 morti nel 1984, sotto Habib Bourguiba.
Nei giorni scorsi, infatti, si sono svolti diversi incontri tra il presidente e i ministri sui problemi di penuria di pane, che dagli anni ’70 lo Stato sovvenziona insieme ad altri prodotti alimentari di base e al carburante.
In comune Kais Saied, Najla Bouden e Ahmed Hachani hanno la provenienza da ambienti accademici, estranei a schieramenti politici.
Hachani ha studiato presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Tunisi, dove Saied ha insegnato diritto costituzionale, mentre Bouden era docente alla Scuola nazionale di ingegneria e aveva occupato diverse funzioni nel ministero dell’insegnamento superiore.
Najla Bouden era stata incaricata da Saied di formare un nuovo governo nel settembre 2021, pochi mesi dopo il colpo di mano del presidente, che tra luglio e agosto si era assunto pieni poteri, proclamando lo stato di emergenza, sospendendo, e poi sciogliendo, parlamento, esecutivo e consiglio superiore della magistratura, e revocando l’allora primo ministro e l’immunità dei deputati.
Da allora Kais Saied ha governato il paese tramite decreti, destituendo vari ministri, compreso quello degli esteri, senza mai fornire motivazioni.
E, per garantirsi la totale assenza di interferenze, nell’estate del 2022 ha emanato una nuova Costituzione che riduce fortemente i poteri del parlamento a favore di un sistema ultrapresidenzialista.
La nuova assemblea, insediata nella primavera del 2023, è stata poi ulteriormente indebolita dall’esito delle elezioni legislative del dicembre 2022, boicottate dai partiti di opposizione e dagli elettori.
Il paese definito “sicuro” dall’Italia per i rimpatri di migranti, destinatario di fondi italiani ed europei per il blocco dei flussi in partenza dalle sue coste – blocco effettuato con campagne xenofobe e con la deportazione di centinaia di africani subsahariani nel deserto -, è di fatto una nazione con un despota al comando, profondamente lacerata da una feroce repressione di ogni forma di critica e dissenso che non ha risparmiato giornalisti e oppositori politici.
L’ultima vittima dell’ondata di arresti iniziata a febbraio che ha portato in carcere una ventina di oppositori, è stato Rached Ghannouchi, 81enne leader del partito islamista Ennahdha, incarcerato lo scorso aprile.
Sono tutti “accusati di aver complottato contro la sicurezza dello Stato” e definiti “terroristi” da Saied.
Il risultato di due anni di questo regime è un paese sull’orlo del collasso, la cui popolazione sprofonda sempre più nella povertà, che oggi colpisce un terzo dei suoi 12 milioni di abitanti, con un debito pari all’80% del prodotto interno lordo e una disoccupazione al 15%.