A Massaua, durante la visita alla scuola secondaria di Saint Francis, dove è imminente l’apertura del nuovo istituto alberghiero, Tommaso Giartosio varca una soglia pensando di entrare in una normale aula. Si trova invece in una stanza da letto, con bagno privato e comfort vari. Forse, ipotizza, sono previsti dei convittori nel nuovo istituto.
Invece no, quella stanza non servirà al sonno o al riposo ma a consentire agli studenti di imparare a rifare i letti e a pulire i sanitari: cose che molti di loro non hanno mai fatto e nemmeno visto fare. Se fossi stato un fotografo, scrive, avrei puntato lì il mio obiettivo, «su questo pied-à-terre patinato che è il negativo fotografico della realtà eritrea». Ma non è fotografo, è scrittore. Consegna quindi alle parole la ripugnanza scaturita dalla vista «di quel campo di addestramento per boy indigeni, volto a sfruttare l’evidente vocazione turistica dell’Eritrea, e magari gli eritrei stessi».
È uno degli aneddoti che si incontrano leggendo Tutto quello che non abbiamo visto. Un viaggio in Eritrea. Sbaglierebbe però chi pensasse di trovarsi di fronte a un classico reportage di viaggio, a un resoconto dettagliato e replicabile di incontri e luoghi. Questo libro è certamente, innegabilmente ambientato in Eritrea, ma non è sull’Eritrea. Parla di quel che accade nel cuore e nella mente di uno scrittore, colto e informato ma inesperto d’Africa, approdato nel 2018 in questa parte di Cornafrica (il neologismo è suo, dello scrittore), qualche mese dopo la fragile pace tra Addis Abeba e Asmara.
Tommaso Giartosio usa nel migliore dei modi la sua “inesperienza”, immergendosi nei luoghi e negli incontri senza inforcare lenti pre-orientate. Non è una tabula rasa (nessuno lo è) ma viaggia per il continente senza avere compilato in partenza una lista delle cose da trovare, facendosi fermare dai dettagli e dal caso. Racconta con lucida sincerità quello che prova: spaesamento, stupore, inadeguatezza, pena.
La vergogna che lo prende quando si sorprende a dispensare penne e improbabili esortazioni («dovete studiare se volete farvi strada nella vita…») a ragazzi vestiti di stracci in una scuola sperduta che sembra il «sottoscala del mondo». La consapevolezza di «non avere la minima idea» che affiora mentre fa una domanda di cui già conosce la risposta. Perché gli eritrei lasciano il paese? La guida non risponde, ma il suo sguardo – come quello di Primo Levi davanti al dottor Müller, nel Sistema periodico – sembra dire: “Costui non si rende conto”.
E quel che Giartosio farà sarà proprio cercare di rendersi conto. Accostarsi alle cose con l’intenzione di capirle: anche le più scomode, le più ripugnanti, come l’autocrazia o la tortura. Vero è che tout comprendre, c’est tout pardonner, ma capire non è giustificare, è la condizione per potere stare o entrare in un luogo. In questo caso, il luogo è l’Eritrea (o, con altro neologismo dell’autore, l’Alteritrea), con il suo passato intrecciato all’Italia e il suo presente opaco.
Tutto quello che non abbiamo visto è un libro intimo e profondo, scritto in un bellissimo italiano. Scandito in forma epistolare, si rivolge esplicitamente a Antonio Politano, l’amico e fotografo che ha coinvolto Giartosio nell’avventura cornafricana e che con lo scrittore ha condiviso, seppur da una diversa prospettiva, il viaggio e l’esperienza. Ma destinataria ideale è ogni persona che provi, anche solo con la mente, a uscire dalla propria comfort zone per aprirsi ad altri mondi.