È tra i festival più noti d’Africa. O forse, lo era. Nyege Nyege, l’appuntamento annuale per gli appassionati di musica elettronica e urbana intrisa di influenze tradizionali, è stato proibito dal parlamento ugandese.
A otto giorni dall’inizio della kermesse, prevista dal 15 al 18 settembre, la ministra per l’etica e l’integrità, Rose Lilly Akello, ha rivendicato la decisione sostenendo che «il festival promuove l’immoralità e non vogliamo questa immoralità nel nostro paese».
Non tutti i membri del governo la pensano allo stesso modo. Il ministro del turismo, Martin Mugarura, si è detto contrario alla decisione, dichiarando che «più di 8mila turisti stranieri hanno già comprato i biglietti e sono pronti ad alloggiare nel nostro paese durante il festival e a trattenersi anche dopo».
Cancellarlo significherebbe un duro colpo per un’economia già sfiancata dagli effetti della pandemia. Lo stesso Nyege Nyege non aveva avuto luogo negli ultimi due anni, a causa del Covid-19.
Mugarura si augura che il governo possa cambiare avviso.
Del resto era già successo nel 2018, quando l’allora ministro dell’etica, Simon Lokodo, – un fervente cattolico dalle posizioni apertamente omofobe – lo aveva fatto annullare. Le sue motivazioni erano ancora più esplicite di quelle attuali. «Non accetteremo di smarrire la nostra morale, l’omosessualità non sarà accettata», disse a mezzo stampa. E nel caso non fosse stato chiaro, aggiunse anche che «il festival avvicina alla venerazione del diavolo ed è pertanto inaccettabile».
Le sue dichiarazioni scatenarono un polverone sui social media, al punto da spingere il governo a fare marcia indietro.
Influenzato da una viscerale omofobia di matrice cristiana evangelica, l’Uganda è tra i paesi più repressivi in Africa sul tema diritti per la comunità LGBTQ+.
Una legge risalente al periodo coloniale britannico criminalizza le relazioni cosiddette “contro natura”, passibili di ergastolo.
Nel 2013, il parlamento aveva approvato una nuova legge che introduceva l’obbligo di denuncia dell’omosessualità e mirava a reprimerne la promozione. Anche in quel caso, la decisione scatenò una bufera mediatica a livello internazionale. Nell’agosto 2014, la Corte costituzionale la annullò per un vizio di forma.