Il progetto di sfruttamento dei giacimenti petroliferi del nord dell’Uganda e l’oleodotto EACOP continuano a destare allarme tra le associazioni per la difesa dell’ambiente e dei diritti umani.
Fin dalle prime fasi di programmazione delle opere necessarie, infatti, gruppi locali e internazionali hanno segnalato i rischi per gli ecosistemi, l’impatto sul clima e le probabili violazioni dei diritti alla terra e ad una vita dignitosa delle popolazioni dove gli impianti verranno costruiti.
Un rapporto, reso pubblico lo scorso luglio, preparato dall’Istituto africano per la gestione del settore energetico (Africa Institute for Energy Governance, AFIEGO, organizzazione ugandese specializzata in ricerca e advocacy sulle politiche energetiche dalla parte dei gruppi sociali più svantaggiati) denuncia ora in particolare l’impatto sulle zone umide che saranno attraversate dall’oleodotto in Uganda.
Per capire appieno che cosa ci sia in gioco, è necessario percorrere velocemente la storia del progetto e conoscerne la localizzazione, le dimensioni, i finanziatori e le aspettative per l’economia della regione.
Sicurezza e ambiente
Un primo nodo è la localizzazione dei giacimenti stessi che sono stati scoperti nel 2006 nelle vicinanze del Lago Alberto, non lontano dal confine con la Repubblica democratica del Congo e precisamente dalle sue province del Nord Kivu e dell’Ituri, da almeno due decenni gravemente instabili.
L’Uganda ha una propria sfera di influenza nelle due regioni e difende i propri interessi e la stabilità del proprio territorio limitrofo anche con la partecipazione ad una forza regionale di supporto al governo di Kinshasa.
Gli ultimi 1.000 uomini sono stati dispiegati nel marzo scorso.
Ma il 16 giugno le ADF – milizie legate allo Stato islamico che hanno base nelle foreste dell’est della Rd Congo – hanno varcato il confine e attaccato una scuola, massacrando 42 persone.
Ѐ lecito, dunque, pensare che il petrolio si trovi in una zona non particolarmente sicura del paese.
Circostanza non ininfluente se si considerano i cospicui finanziamenti necessari per il suo sfruttamento.
Ma il problema più incombente, almeno per ora, è quello ambientale.
I giacimenti si trovano infatti nella zona del parco delle Murchison Falls, la più grande area protetta del paese.
Le prospezioni e gli studi di fattibilità per l’estrazione, la lavorazione e la commercializzazione del greggio, prolungatisi fino al 2014, hanno dato risultati molto interessanti, secondo gli esperti del settore, che stimano di poter estrarre senza difficoltà almeno 1,7 miliardi di barili di greggio dei 6,5 individuati, ad una media di 230mila al giorno, quando gli impianti saranno a regime.
I lavori sono già cominciati nelle scorse settimane, con la perforazione del primo degli oltre 400 pozzi programmati. L’inizio della produzione e commercializzazione è previsto per il 2025.
Nel progetto, per cui si prevedono investimenti complessivi per 10 miliardi di dollari, sono coinvolti quattro partner: TotalEnergies E&P Uganda, affiliata della Total, è il socio di maggioranza, seguita dalle compagnie petrolifere dell’Uganda e della Tanzania e dalla multinazionale cinese CNOOC.
Estrazione, trattamento e trasporto
L’intervento si compone di diverse infrastrutture. Due sono le zone petrolifere, Tilenga e Kingfisher, in cui saranno perforate le centinaia di pozzi programmati e costruite due unità di prima lavorazione (Central Processing Facility – CPF) per separare e trattare il petrolio, l’acqua e il gas estratti.
A pieno regime, Tilenga avrà la capacità di produrre una media di 204mila barili al giorno; Kingfisher almeno, 42mila.
Dalle due CPF, il greggio verrà inviato a Kabaale, dove si trovano l’inizio dell’oleodotto, l’East African Crude Oil Pipeline (EACOP), e l’unica raffineria del paese, di proprietà della Uganda Refinery Holding Company, una società controllata al 100% dal governo ugandese, che ne lavorerà 60mila barili al giorno.
Il resto sarà commercializzato attraverso l’oleodotto, lungo 1.443 chilometri, 296 dei quali in Uganda e il resto in Tanzania, dove si trova la stazione di arrivo, nella penisola Chongoleani, vicino al porto di Tanga, sull’Oceano Indiano.
L’oleodotto, che sarà completamente interrato, dovrebbe essere costruito nell’arco di 3 anni ad un costo previsto di 3,5 miliardi di dollari.
Il suo percorso è stato approvato nel 2016, durante un incontro dei capi di stato dei paesi dell’Africa orientale.
Sarà il più lungo al mondo riscaldato costantemente a 50 gradi, misura necessaria per rendere fluido il petrolio ugandese che è estremamente vischioso al momento dell’estrazione.
Zone umide
Ѐ proprio sul percorso dell’oleodotto che si concentra il rapporto commissionato da AFIEGO.
Le preoccupazioni derivano dal fatto che, solo in Uganda, attraverserebbe ben 158 zone umide, la maggior parte collegate in cinque importanti sistemi – Wambabya, Kafu, Nabakazi, Katonga e Kibale-Bukora – estesi in 10 distretti, mettendone a rischio il delicato equilibrio ecologico e la biodiversità di cui sono ricchi.
Il rischio è anche maggiore per il fatto che il tubo sarà riscaldato e se l’isolamento termico non sarà perfetto, le zone umide potrebbero non rigenerarsi.
Particolare preoccupazione desta l’effetto sulla quantità e salubrità dell’acqua che queste zone forniscono a riserve idriche cruciali per la regione, e precisamente il Lago Alberto e soprattutto il Lago Vittoria da cui ha origine il Nilo Bianco, che insieme al Nilo Blu, le cui sorgenti si trovano sull’altipiano etiopico, confluisce nella capitale del Sudan, Khartoum, nel Nilo.
Secondo il rapporto, i già contestati studi di fattibilità dell’oleodotto non hanno esaminato con la dovuta attenzione l’impatto sulle zone umide, che hanno un’importanza fondamentale per l’economia di almeno l’80% delle comunità che risiedono nelle loro vicinanze che vi ricavano, tra l’altro, cibo e acqua per l’irrigazione e per l’uso umano.
Secondo l’articolo Total economic value of wetlands products and services in Uganda (Valore economico totale dei prodotti e dei servizi delle zone umide in Uganda) pubblicato quest’anno dal Scientific World Journal Studies, ogni ettaro di zona umida potrebbe produrre annualmente un valore di 10.491 dollari che si tradurrebbe in 22,5 miliardi se i 2.152.600 ettari attuali fossero conservati.
I dirigenti dell’EACOP e i responsabili governativi di Uganda e Tanzania rispondono assicurando che gli studi di fattibilità sono stati fatti in modo accurato, tanto che alcune parti del progetto sono state modificate proprio per proteggere in modo più sicuro l’ambiente.
Quanto all’impatto economico del progetto, i governi dei due paesi interessati si aspettano un notevole ritorno non solo per la commercializzazione del petrolio, ma anche in termini di lavoro: 1,7 miliardi di dollari in appalti per le ditte locali e 10mila nuovi posti di lavoro solo nel suo paese, stima la presidente della Tanzania.
Non stupisce quindi che, nonostante una risoluzione del parlamento europeo che ne chiedeva la sospensione, a novembre 2022 l’intero progetto sia stato approvato dall’assemblea parlamentare paritetica dell’Africa, dei Caraibi, del Pacifico e dell’Unione europea (Acp-Ue).
Si tratta in sostanza del solito conflitto tra le esigenze della protezione ambientale e quelle dell’economia, che non ha ancora imparato a giudicare gli impatti in termini di sostenibilità sul medio e lungo periodo.
Ma forse il nodo più importante per la realizzazione del progetto deriva dagli impegni internazionali sottoscritti negli accordi di Parigi per contrastare i cambiamenti climatici.
Che senso ha investire miliardi di dollari per estrarre e commercializzare petrolio di fronte a scadenze concordate per la fine dell’impiego dei carburanti fossili?
Che senso ha per paesi come Uganda e Tanzania sostenere progetti il cui impatto ambientale e climatico è già fin troppo evidente ovunque, ma soprattutto nel continente africano?