È ancora la prassi, in Uganda come in altre parti dell’Africa, quella di detenere negli ospedali i pazienti che non possono pagare.
Trattenuti come prigionieri, viene negato loro il cibo e imposto, in alcuni casi, di svolgere lavori umili per compensare il mancato pagamento.
Succede anche in ospedali che si dichiarano no-profit, come il St. Francis di Nkokonjeru, amministrato dall’Uganda Catholic Medical Bureau.
A fare le spese di questi ricatti sanitari sono molto spesso le donne in gravidanza.
Qui un cesareo può costare oltre 500mila scellini ugandesi. Più del doppio dello stipendio percepito dai lavoratori del paese, attorno ai 200mila scellini ugandesi al mese.
L’ennesimo schiaffo al diritto alla salute, che in molti paesi fa ancora fatica a farsi strada.
Ora, due donne hanno deciso di ribellarsi.
Akello Esther Susan e un’altra, minorenne all’epoca dei fatti e di cui si conoscono solo le iniziali, NS, dopo essere state a loro volta trattenute per settimane, hanno fatto congiuntamente causa non solo all’ospedale, come già capita a volte, ma a governo, consigli distrettuali e diocesi ecclesiastiche.
La speranza non è nel risarcimento. L’obiettivo è portare una volta per tutte a un cambiamento da un punto di vista giuridico e legale.
Le Ong ugandesi denunciano infatti che questo non sia ancora a tutti gli effetti accaduto.
L’Initiative for Social and Economic Rights (ISER) ha dichiarato che in alcuni casi è stata riconosciuta una violazione dei diritti umani, ma non ci sono state modifiche o integrazioni legislative.
Lo scorso febbraio, l’Alta Corte di Kampala si era già pronunciata su questo punto, dopo la causa intentata ai danni del Jaro Hospital Kyaliwajjala in seguito alla detenzione arbitraria di un adolescente.
Non c’erano state però conseguenze di fatto, oltre alla dichiarazione del giudice.