Se Luca Traini fosse stato africano e i sei feriti fossero stati italiani, la narrazione mediatica di quel che è accaduto il 3 febbraio del 2018 a Macerata sarebbe stata differente. Anche la reazione delle istituzioni sarebbe stata plausibilmente diversa: i sei colpiti da arma da fuoco avrebbero probabilmente ricevuto in ospedale, sin da subito, le visite ufficiali dei rappresentanti del governo. Cosa che invece non è accaduta.
Ma con i se, si sa, non si è mai scritta la storia. Con le sentenze invece sì, e la Corte di Cassazione, lo scorso 24 marzo, ha emesso il verdetto definitivo sulla “caccia ai neri” avvenuta a Macerata quei primi giorni di febbraio di tre anni fa, confermando i 12 anni di condanna a Traini, riconoscendo al reato di strage la matrice razzista come aggravante e stabilendo la perfetta lucidità dell’attentatore.
Ma se di attentato, cioè di un atto violento contro l’incolumità di un gruppo di persone, si è subito parlato, un libro collettivo dal titolo Un attentato “quasi terroristico”. Macerata 2018, il razzismo e la sfera pubblica al tempo dei social media (Carrocci editore) spiega perché, per il gesto di Traini, è stato rigettato invece il termine “terroristico”. Nonostante, poche ore dopo l’accaduto, vi sia stato un tweet di Roberto Saviano che lanciava proprio questa lettura: un “attentato terroristico di matrice fascista”.
Non siamo Charlie
Si è partiti da analizzare alcuni processi di eventi descritti come terroristici per capire quali elementi siano mancati, a quello di Macerata, affinché si potesse classificare la tentata strage come attentato terroristico.
Certo, la definizione di terrorismo è di per sé controversa, perché non vi è accordo sull’esatta nozione di questi eventi, ma gli autori sono arrivati alla conclusione che attorno al gesto di Traini non si è scatenata quella rottura comunitaria tipica degli attentati terroristici, da cui nasce una reazione determinata dall’attacco ai valori nazionali di riferimento e una conseguente partecipazione dal basso al dolore delle vittime.
Se dopo l’attentato alla redazione francese di Charlie Hebdo si era “tutti Charlie”, per cui c’è stata una immediata identificazione con i giornalisti e i disegnatori satirici vittime dell’attentato, nel caso di Macerata non c’è stato questo moto di solidarietà né di immedesimazione. Tutte le vittime erano nere e questo ha fatto sì che non rappresentassero la comunità offesa.
Il fatto che l’autore della tentata strage fosse una persona bianca, e quindi appartenente de iure alla comunità italiana, ha spiegato Giuseppe Faso, «ha fatto sì che il gesto venisse immediatamente derubricato al gesto di un folle per strada. Per poter definire questa tentata strage come terroristica si sarebbe dovuto creare attorno a questo evento, una comunità simbolica che si riconoscesse con le vittime.
Un “noi” che ancora oggi non è definito e che ci rende in qualche modo complici. Perché se in un attentato come questo non riconosci la matrice razzista, vuol dire che ancora c’è un richiamo a un’appartenenza di cui ci si vergogna. Noi bianchi».
Quel che ci si aspettava non solo dalla comunità, ma soprattutto dalle istituzioni, era il riconoscimento di un attentato a uno dei valori nazionali fondamentali della nostra Costituzione: l’antirazzismo. Ma sarà proprio la politica, che in quel momento è in campagna elettorale, a ridimensionare e derubricare l’evento, a continuare a parlare di immigrazione e sicurezza. Aiutata dai media che ingabbieranno il gesto a quello di un individuo isolato, dandone una lettura precostituita e rassicurante.
Il peso della narrazione
I media, sin da subito, mostreranno una disparità di trattamento nella narrazione delle storie che fanno parte di questi eventi e che hanno come protagonisti carnefici e vittime diversi. Luca Traini (carnefice) spara sui neri Wilson Kofi, Omar Fadera, Jennifer Odion, Gideo Azeke, Mahamadou Toure e Festus Omagbon (vittime), per vendicare la morte di Pamela Mastropietro (vittima), uccisa il 29 gennaio 2018 da Innocent Oseghale (carnefice).
Ma mentre lui, Traini, continuerà a essere chiamato per nome e cognome dai media, Pamela (in quanto donna e vittima di violenza) rimarrà semplicemente e confidenzialmente Pamela. E se le sei vittime africane rimarranno senza nome, descritte come “stranieri, immigrati, extracomunitari”; Oseghale per i media sarà “il nigeriano, lo spacciatore, il clandestino”, il cui nome scomparirà ben presto dalla narrazione mediatica.
«E se di Traini si racconta molto, sentendo i familiari, descrivendone la camera, le abitudini, le simpatie politiche, la palestra, con un’individualizzazione molto netta della sua figura che non ha una forma di collettivizzazione ma appartiene a un racconto quasi biografico, di Oseghale, all’opposto, si fa una lettura che tende alla collettivizzazione: appartiene a un gruppo ben definito, quello degli immigrati irregolari, nigeriani, spaccia, non ha permesso di soggiorno», racconta Andrea Pogliano, uno dei ricercatori del libro.
«Se lo sguardo si sposta, si incontra una diversa narrazione anche per le vittime: Pamela Mastropietro è la diciottenne bella, solare, allegra. La si racconta con un linguaggio quasi voyeuristico, ripulendo da subito la sua storia legata alla droga, dipingendo una principessa ingenua, vittima del mostro nigeriano. Delle sei vittime nere di Macerata invece non si parla mai direttamente. Il primo giorno non si sa neanche esattamente il numero, in quali condizioni di salute siano. Quando il tg di La7 ne parla scusandosi della mancanza perché troppo presi dalla figura di Traini e dal suo legame con la Lega (è tempo di campagna elettorale e Traini è un ex-candidato leghista alle elezioni comunali di Corridonia, ndr), si assiste quasi a una necessità di “riabilitare” le vittime: sono regolari, alcuni studiano, altri lavorano… uno di loro ha anche spalato la neve rendendosi utile…».
La cosa che disarma il telecomando di quei giorni è che, qualsiasi canale si guardi, la narrazione di questo attentato razzista è omogenea.